Prove di dialogo nazionale. Qui lo chiamano «dialogo nazionale» ma potremmo tradurlo con «compromesso storico» o «larghe intese». – «Non funzionerà mai» dice Raouf, professore universitario, laico convinto e critico acceso del governo tunisino a maggioranza islamista. «Nessuna delle due parti è disposta a riconoscere l’altra». — «Proprio per questo deve funzionare» ribatte Sadok Sghiri, giornalista, dirigente politico, membro della Majlis al Shura, l’Assemblea Consultiva al vertice del partito islamista Ennahda. «Il popolo tunisino non ha scelta se non quella della riconciliazione nazionale». Dopo settimane di negoziati tra gli esponenti dei principali partiti politici e quelli del «Quartetto»- il sindacato dei lavoratori (Ugtt), quello degli imprenditori (Utica), l’Ordine degli Avvocati e la Lega Tunisina dei Diritti Umani — il 25 ottobre, con due giorni di ritardo sulla data fissata, sono inziati solennemente i lavori del «dialogo nazionale»: una roadmap prevede, nel giro di quattro settimane, le dimissioni del governo in carica, la formazione di un governo tecnico incaricato di organizzare le elezioni, il completamento della stesura della costituzione e la sua ratifica.

È l’ultimo atto della crisi iniziata il 25 luglio con l’assassinio del deputato di opposizione Brahmi, quando un terzo dei membri dell’Assemblea nazionale costituente (Anc) si è ritirato sulla spianata del Bardo di fronte alla sede dell’Assemblea, reclamando le dimissioni del governo e lo scioglimento della stessa Assemblea. E poiché il Presidente dell’Anc, Ben Jaafer — membro della coalizione di governo — ha rifiutato, in nome della salvaguardia dell’unità nazionale, di applicare il regolamento che avrebbe consentito di dichiarare decaduti i secessionisti e procedere alla loro sostituzione, i lavori dell’Assemblea sono stati bloccati per tre mesi, con il piazzale del Bardo occupato dagli schieramenti antagonisti e sullo sfondo la sanguinosa repressione dei Fratelli musulmani in Egitto. A sbloccare l’impasse si sono mossi i due calibri massimi della scena politica tunisina: lo cheikh Rashid Ghannushi, carismatico leader di Ennahda, ha preso l’aereo ed è andato a cercare il suo grande nemico, quel Béji Caid Essebsi implicato nella repressione degli islamisti sotto Ben Ali, alla guida del governo provvisorio dopo la rivoluzione, a capo di un partito di opposizione farcito di esponenti del vecchio regime dopo la vittoria elettorale degli islamisti. L’incontro dei due a Parigi non è piaciuto a molti membri dei rispettivi schieramenti ma ha dato l’avvio ad un processo in cui si è inserito come grande mediatore il segretario del potente sindacato Ugtt, Hussein Abassi

Dopo faticose trattative, il cui nodo centrale erano le dimissioni del governo poste dall’opposizione, a imprimere una svolta al processo è intervenuta l’ennesima macelleria dall’inizio dell’anno

Dopo faticose trattative — il cui nodo centrale erano le dimissioni del governo poste dall’opposizione come precondizione all’inizio del dialogo — a imprimere una svolta al processo è intervenuta l’ennesima macelleria dall’inizio dell’anno. Si è trattato stavolta — dopo due omicidi politici e dopo l’uccisione in un’imboscata di otto militari sulle montagne del Chaambi — della strage di una decina di membri della Guardia nazionale, in due episodi distinti ma quasi identici, uno pochi giorni prima della data fissata per l’inizio del «dialogo nazionale», l’altro quel giorno stesso, cioè il 23 ottobre, secondo anniversario dell’elezione dell’Anc, che ha visto quest’anno come l’anno scorso un tentativo abortito dell’opposizione di chiamare il popolo in piazza per mandare a casa il governo islamista. Alla vigilia del 23 ottobre, Sadok Sghiri riassumeva la posizione di Ennahda citando Mitterand: «Abbiamo conquistato un governo, non il potere». Tre giorni dopo — nel frattempo reparti di polizia hanno manifestato contro il governo, sedi di Ennahda sono state incendiate, Ennahda per la prima volta ha permesso ai suoi militanti di scendere in pazza immediatamente, contro le stragi e a sostegno del governo, e il primo ministro Ali Laarayedh si è impegnato per iscritto a dimettersi tra tre settimane — Riadh, giovane avvocato nadawi, è molto più crudo: «Il governo attuale non controlla nulla: né l’amministrazione, né il ministero dell’Interno, né le forze dell’ordine. Finora a impedire un colpo di Stato c’è solo la fragile fedeltà repubblicana dell’esercito».

Questo processo, se può portare al superamento dei conflitti ideologici e personalistici che hanno dominato la scena politica post-rivoluzionaria, è tuttavia minato da profonde diffidenze reciproche

Il dialogo nazionale vede per la prima volta entrare in campo da protagonisti le parti sociali e alcuni dei principali gruppi d’interesse. Questo processo, se può portare al superamento dei conflitti ideologici e personalistici che hanno dominato la scena politica post-rivoluzionaria, è tuttavia minato da profonde diffidenze reciproche. Inoltre vi sono quelli che denunciano una graduale espropriazione del potere decisionale del popolo e un ritorno ai vecchi accordi tra élites autodesignate che lavorano a porte chiuse. Un appello — «Non toccare il processo democratico» — ha circolato su Avaz e Facebook prima di approdare nelle strade dove ha raccolto in pochi giorni migliaia di firme: «non permetto a nessuno di decidere al mio posto e parlare in mio nome» recita il testo, se non i miei rappresentanti legittimamente eletti. Una possibile mobilitazione dell’apparato poliziesco in funzione antigovernativa appare a molti un’ipotesi plausibile. Per una parte dell’opposizione essa è anche accettabile. Per gli islamisti si tratta invece di andare a nuove elezioni al più presto. Anche a costo di perderle: se devono essere estromessi (provvisoriamente) dal governo, è essenziale che ciò avvenga tramite le urne e non tramite la piazza.