Lo scorso settembre l’Università di Graz ha conferito il dottorato honoris causa in teologia al registra austriaco Michael Haneke. Per una volta la retorica che spesso accompagna questo genere di iniziative accademiche non ha fatto da corollario né alle ragioni della scelta, né all’atto del conferimento del titolo — che è venuto a suggellare un lavoro quasi ventennale di collaborazione fra l'Istituto di teologia fondamentale dell’Università, diretto dal prof. G. Larcher, e lo stesso Haneke. Oltre la cerimonia, si offre anche l’occasione per mettere mano a qualche breve riflessione sul rapporto fra mondo dell’esperienza artistica e fede, che rischia oggi tanto l’inflazione quanto l’indeterminatezza.

L’uso dell’immagine da parte di Haneke è impegnativo e rigoroso; e forse è proprio per questo che i suoi film vengono sovente rubricati come genere raffinato, quando invece egli mira a una costante ripresa e messa in scena della vita vissuta — con le sue durezze, le sue pieghe, le molte fragilità nascoste sotto un manto di pura apparenza. Soprattutto, nella sua opera, vi è una ricerca costante volta a rendere visibili quegli aspetti del vivere che sono velati dall’oblio di un clima borghese appeso a convenzioni fatue, da un lato, e di una società mediatica che divora se stessa nella violenza che tiene in piedi la macchina di un consumo votato alla perpetua generazione di sé, dall'altro. Si potrebbe parlare di una sorta di resistenza opposta all’incessante banalizzazione dell’esistere, nella quale tutti siamo immersi non senza una qualche nostra complicità; mettendo così in luce anche la malevola indifferenza che abbaglia il nostro sguardo di uomini post-illuministi, rendendolo incapace di guardare la profondità delle cose e degli esseri umani. In fin dei conti, siamo tutti aggrappati a una superficie senza spessore e abbiamo smarrito la forza per penetrare nelle pieghe sottili della vita; quelle in cui si viene a contatto con l’impossibilità di qualsiasi innocenza, quelle in cui la soglia fra il bene e il male appare in tutta la sua inevidenza, quelle in cui la linea di separazione fra vittima e aguzzino diventa instabilmente porosa. Tutte soglie, queste, che nel cinema di Haneke perdono ogni impermeabilità: non c'è immunità a garanzia della vita. Riuscire a mostrare tutto questo senza cadere nel cinismo, con tatto e pudore, lasciando apparire la fessura di un’ulteriorità possibile anche per quella chiusura di mondi monadici, in cui sembra sempre più scomporsi l’odierno tessuto civile della convivenza umana, è un tratto peculiare della maestria artistica di Haneke.

Già in questo semplice abbozzo risuonano armoniche rispetto alle quali il cristianesimo dovrebbe essere sensibile, percependovi una discreta e lontana assonanza. Nella produzione cinematografica di Haneke il tema religioso viene, infatti, posto in forma indiretta; ma pur non apparendo è interpellato, chiamato in causa, messo davanti all’esigenza di una domanda che, ben prima di risposte, è in cerca di un suo più sottile affinamento. In questa obliquità ed evanescenza aperta risiede quell’intrigo estetico che dovrebbe sollecitare l’attenzione della fede e del suo sapere. Come lo dovrebbe fare uno dei canoni artistici fondamentali dell'opera del regista austriaco: quello di una critica all’eccesso di immagini, che caratterizza il contemporaneo, messa in atto esattamente attraverso l’immagine stessa — torcendo il mezzo nel cuore stesso della sua forza. Nella calibratura della fotografia, nel modo di muovere la telecamera, nell’uso di diaframmi neri, è all’opera un vero e proprio iconoclasmo portato all’estremo dell’esercizio visuale. Scintilla qui l’idea di un’estetica della negazione che va a impattare sull’eccesso di affermazione e di evidenza immediata che caratterizza l’estetizzazione complessiva della vita cui siamo quotidianamente esposti senza posa. Tutti sprazzi che dovrebbero inquietare una teologia troppo comodamente appollaiata sull’assicella della sua gabbietta; e che, oramai, sa parlare quasi solo a se stessa.

Ponendosi come incessante domandare, come interrogazione, il cinema di Haneke si destina allo spettatore; non per compiacerlo o confermarlo nelle sue già raggiunte opinioni (delle certezze, oggi, non ne è rimasta traccia alcuna), ma per metterlo davanti al dovere di un giudizio che il film rimette davvero alle sue mani — generando così una sorta di conversione estetica della coscienza dello spettatore, accompagnato dalle immagini all’affinamento di una sensibilità, all'interno della società odierna, che rende capaci di cogliere l’irruzione della realtà proprio nel cuore della rimozione mediatica che caratterizza la nostra attuale esperienza del mondo.