Un successo annunciato. La vittoria di Angela Merkel non ha nulla di sorprendente. Che la Cdu vincesse, era chiarissimo da mesi, l’unico dubbio riguardava l’entità di questa vittoria. Il partito cristiano democratico ha aumentato notevolmente i suoi consensi, praticamente unico tra i governi in carica durante la crisi a confermarsi al potere. D’altronde la Germania è uscita abbastanza bene dalle vicissitudini di questi anni: dopo un notevole calo del Pil nel 2009, l’economia tedesca era rimbalzata nel 2010, per poi arenarsi insieme al resto d’Europa negli ultimi due anni, senza però andare in recessione, per poi risalire moderatamente negli ultimi mesi. La disoccupazione, grazie anche agli incentivi del governo, rimane la seconda più bassa in Europa dopo quella austriaca, a un modesto 5,3%, ben sotto la metà di quella italiana, e approssimativamente un quinto di quella spagnola e greca. L’industria tedesca è rimasta competitiva e le esportazioni, il vero treno della crescita tedesca, hanno continuato a macinare. Rispetto al resto d’Europa, chiaramente, un esempio di successo. Anche se non andrebbero sottostimati alcuni aspetti normalmente poco considerati che gettano più di un’ombra sul successo dell’economia tedesca, come ha suggerito nelle scorse settimane sul Financial Times Adam Posen: ad esempio la Germania ha il poco invidiabile primato in Europa Occidentale della proporzione maggiore di bassi salari rispetto al reddito mediano. Il tasso di investimenti fissi come percentuale del Pil si è ridotto di un quarto dall’unificazione, mentre anche l’investimento in capitale umano si è ridotto. Conseguentemente la crescita della produttività tedesca – che pure partiva da un livello notevolmente alto – con la crescita per ora lavorata inferiore di circa un quarto rispetto alla media OECD. Socialmente, le diseguaglianze sono un problema anche in Germania, anche se non certo al livello dei paesi anglosassoni, e infatti il principale punto programmatico della Spd era l’innalzamento dell’aliquota massima sui redditi dal 42 al 49%. Troppo poco, però, per scalfire il primato della Merkel.

Anche perché, sulle grandi questioni della crisi, la Spd ha faticato a far vedere le differenze con la Cdu. Da una parte, i cristiano-democratici hanno messo in azione la considerevole forza degli ammortizzatori sociali per ridurre, come abbiamo visto, la disoccupazione, proteggendo fasce decisive di lavoratori. Dall’altra la Spd sembra aver ormai definitivamente abbandonato qualsiasi residuo keynesiano già ai tempi di Schroeder, proponendo politiche economiche a metà tra ordoliberismo e neoliberismo, e comunque ignorando largamente il ruolo attivo dello Stato in economia. Con il risultato, appunto, di avere un’economia competitiva ma che deve buona parte del suo successo alla deflazione interna e alla compressione della quota salari, un programma di ristrutturazione portato avanti dall’allora governo socialdemocratico e confermate dai due mandati di Angela Merkel. Queste somiglianze si sono poi accentuate davanti alla lettura della crisi europea, con la Spd che ha votato praticamente tutti i cosiddetti piani di salvataggio ideati dal governo Merkel, salvo muovere velate critiche solo durante la campagna elettorale. In poche parole, hanno assecondato l’idea che la crisi dei Pigs non sia in alcun modo affare tedesco, con la Germania pronta ad aiutare ma senza prendersi alcuna responsabilità nel riequilibrare le economie europee. Le critiche più decise, in questo senso, erano venute dalla Linke e dagli antieuropeisti dell’Afd che si erano espressi con durezza sul continuo ricorso all’austerity nel Sud Europa.

E dunque, con la vittoria della Cdu, e anche con l’orizzonte della Grande Coalizione,quello che possiamo aspettarci è la continuazione di quello che abbiamo visto in questi anni. Dal punto di vista dell’economia tedesca, si continuerà a puntare, come storicamente consolidato, sulle esportazioni, favorite anche da una forte attenzione all’inflazione, dalla costante moderazione salariale e soprattutto dall’austerity domestica.  Dal punto di vista dell’Europa, vale lo stesso discorso. Il manifesto politico-economico dei prossimi anni è stato offerto la settimana scorsa dal ministro delle Finanze Schauble ancora sulle colonne del Financial Times, dove si sosteneva con molto vigore che il modello tedesco sia da replicare nel resto del continente e auto-congratulandosi per i successi dell’austerity.

La Cancelliera, dunque, continuerà a chiedere tagli e tasse, sacrifici ai partner, offrendo molto poco in cambio, a cominciare da una probabile opposizione all’unione bancaria, e continuando ad ignorare i problemi sociali che attanagliano il Sud Europa. Con la Cdu vince dunque un partito che rivendica con orgoglio la sua matrice filo-europea, ma che allo stesso tempo porta avanti una visione molto rigida, e molto tedesca, di quello che il Vecchio Continente debba essere. La Cancelliera si è dimostrata l’unica vera leader in questo periodo di crisi, ma non è detto che questo sia un bene per il resto d’Europa.