La pubblicazione dei risultati della valutazione, svolta da parte dell’Anvur, della ricerca scientifica – realizzata in Italia, negli anni 2004-2010 - è stata accompagnata da qualche polemica e da qualche battuta di spirito. Ma è da considerare utile, se non altro perché ci avvicina all’esperienza tipica dei paesi civili: si deve sempre valutare l’utilità dei soldi pubblici spesi. Da anni parliamo di “spending review”: perché non dovremmo farla per la spesa pubblica che serve a finanziare la ricerca scientifica? Prendiamo in considerazione alcuni dei principali risultati – tutto sommato non sorprendenti – del notevole lavoro svolto dall’Anvur. Sottolineo anzitutto tre aspetti:

1) L’elevata “varianza” dei risultati. Non solo tra Nord e Sud, ma anche tra diverse sedi, discipline, figure di ricercatori, e così via. A conferma che anche in questo caso, in Italia “pubblico” non è sinonimo di scadente, ma di qualità casuale.

2) Il fatto che la produttività scientifica sia maggiore nei più giovani. È l’ennesimo allarme sul futuro del Paese.

3) La circostanza che gli studiosi di economia non escano molto bene da tutte queste graduatorie. Ma come, non sono proprio gli economisti gli studiosi che più “pontificano” su tutti i media ?

Ho provato a integrare questi risultati con un po’ di analisi sul campo, dei soggetti e dei prodotti valutati dall’Anvur, andando a “visitare” (cosa che ovviamente tutti possono fare) i siti e i CV delle sedi e degli studiosi in questione, concentrandomi in particolare su cosa emerge dai primi in classifica: Padova, Pisa, Lucca, e Trento.

Cos’altro è importante sottolineare? Anche qui, tre cose :

1) La conferma che anche in Italia (come nell’esperienza anglosassone) le “grandi” università sono quelle piccole! Basti ricordare la dimensione di università come il Mit di Boston o Oxford e Cambridge in Inghilterra. E le piccole università sono anche più innovative da tanti altri punti di vista, ad esempio nella governance. Qualcuno ricorda il bando pubblico con cui nel dicembre scorso l’Università di Trento fece sapere che stava cercando un buon rettore e tutti gli interessati erano invitati a fare domanda?

2) L’identikit del ricercatore “eccellente” che ne risulta. Quasi mai nato in quella città, e spesso neppure laureato in quella sede. In altre parole, una persona mobile. Che pubblica continuamente, anche più volte all’anno, non monografie (come usava una volta), ma lavori che appaiono sulle maggiori riviste internazionali (ovviamente in inglese, e non dirette da italiani). Spesso quei papers sono in produzione congiunta con studiosi di altri Paesi. E sono prodotti di ricerca con una accurata verifica quantitativa che serve ad accumulare nuova conoscenza dei problemi economici. Anche qui, il rigore metodologico fa quasi sempre premio sulla portata ideologica del problema, come è da anni mainstream in tutto il mondo.

3) Anche da questo punto di vista, è dunque evidente l’inserimento a pieno titolo della nostra ricerca scientifica in quella internazionale. Con un beneficio comprensibile, che però resta solo potenziale se le nostre sedi non sono a loro volta “attraenti” come invece lo è la concorrenza altrui. Proprio perché i nostri ricercatori eccellenti sono mobili e ben inseriti nel mondo, è ovvio l’incentivo che essi hanno ad andarsene altrove. Nelle discipline economiche più che in altre. Anni fa, solo alla London School of Economics, otto su cinquanta docenti di economia erano italiani: fa piacere che se ne sia accorta anche l’Anvur.