Il campo nazista di Mauthausen, collocato a una ventina di chilometri da Linz e parte di un più ampio circuito di lager che comprendeva almeno una quarantina di siti, fu l’ultimo a essere liberato. Per l’esattezza, sabato 5 maggio 1945. A partire dal giugno del 1938, ben 200.000 persone, se non oltre, vi erano transitate, e almeno la metà di esse vi perse la vita, tra cui 5.750 italiani.

Durante le ultime settimane si sono tenute in questo luogo diverse cerimonie commemorative. Al di là della ricorrenza in sé, condivisa e molto partecipata soprattutto dai famigliari degli ex deportati nonché da diverse scolaresche europee, in particolar modo da quelle italiane, pare che poco sia però cambiato.

L’Austria, nel sistema di potere e di oppressione nazista, aveva occupato un ruolo specifico. Annessa senza colpo ferire alla Germania nel marzo del 1938, ne divenne una provincia, meglio conosciuta come Ostmark. Il 10 aprile dello stesso anno la Wiedervereiningung (la cosiddetta «riunificazione») fu celebrata con un voto plebiscitario. Nel disegno egemonico hitleriano il nuovo Land tedesco costituiva sia un cuscinetto rispetto all’Italia fascista sia la testa di ponte nei confronti dei Balcani, dell’Adriatico e, più in generale, verso parte di quella Mitteleuropa che non era composta da donne e uomini di lingua e origine tedesca.

Dopo il 1945 il rapporto con il proprio passato di "volenterosi" aderenti al progetto del Terzo Reich divenne per gli austriaci un problema insuperabile, e in parte è ancora così Dopo il 1945 il rapporto con il proprio passato di «volenterosi» aderenti al progetto del Terzo Reich divenne per gli austriaci un problema insuperabile, e in parte è ancora così. Rivendicata e ricevuta l’indebita qualifica di «prima vittima di Hitler», il Paese sviluppò da subito un atteggiamento di rimozione; i trascorsi furono così risolti rinviando alla condizione di sostanziale incolpevolezza collettiva. In fondo, e c’è chi oggi parla ancora in tali termini, l’unico suo male fu quello di avere subito un’annessione, l’Anschluss, che successivamente sarebbe stata in grado di manipolare la buona fede degli austriaci, altrimenti desiderosi di realizzare l’antico e legittimo sogno di ricongiungersi con la grande nazione tedesca. In tal senso, sostengono gli apologeti di questa interpretazione, l’Austria è vittima e non carnefice.

Una tale disposizione d’animo nei propri confronti ha trovato il suo fondamento nel modello consociativo, che ha retto le sorti del Paese dal dopoguerra in poi. La Sozialpartnerschaft, la collaborazione non ideologica tra le parti sociali ed economiche, riflessa sul piano politico nel galateo istituzionale che ha sostenuto la piccola Repubblica, coinvolgendo in particolar modo i socialisti e i cattolici popolari, da sempre si alimenta di una cultura politica del consenso e della cooperazione.

Memore delle vicende in cui si era dibattuta la Prima Repubblica, caratterizzata, fino al trionfale ingresso dei nazisti nel 1938, da un tasso di conflittualità esasperata, a partire dal 1955, quando l’Austria tornò a essere uno Stato indipendente, il Paese giocò tutte le sue carte sul piano della reciprocità consensuale. Ne è derivata una Repubblica democratica dove all’antifascismo, soprattutto se inteso come lettura problematizzante del proprio passato, poco o nulla è stato concesso.

Ne è derivata una Repubblica democratica dove all’antifascismo, soprattutto se inteso come lettura problematizzante del proprio passato, poco o nulla è stato concesso

Il caso controverso di Kurt Waldheim, già segretario generale delle Nazioni Unite e poi presidente della Repubblica dal 1986 al 1992, indicato come criminale di guerra, ne è stato a suo tempo un riscontro. Soprattutto per il modo in cui, a guerra terminata, lo stesso Waldheim ha ripulito il suo curriculum, rivendicando poi, dinanzi alle ripetute accuse e ad alcuni riscontri, la sua sostanziale innocenza, ovvero l’estraneità rispetto alle altrui atrocità. Nel suo modo di fare, a tratti truffaldino, non pochi austriaci si sono riconosciuti.

L’innocenza originaria è così divenuta il paradigma fondante dell’identità austriaca dopo la perdita dell’impero e, successivamente, la sconfitta bellica. Ciò ha portato non solo a un’anestetizzazione della coscienza critica, ma soprattutto a una neutralizzazione delle responsabilità del passato. E, di conseguenza, a una rimozione degli stessi conflitti degli anni Venti e Trenta e del rapporto con la Germania nazista.

Che cosa ciò comporti, e in che cosa si estrinsechi, lo si può misurare andando a visitare il memoriale di Gusen, un sottocampo di Mauthausen, dove passarono complessivamente 60.000 prigionieri, di cui circa 3.000 italiani. Nulla del vecchio lager è rimasto, ma molte delle sue strutture sono state abbattute o riconvertite in villette. Sulle ceneri dei morti, dentro il perimetro del terrore, da decenni si stagliano i giardinetti ordinati di tanti sorridenti abitanti del luogo.