Fare un nuovo film dopo essere stati premiati da critica e pubblico con un grande film è sempre molto difficile, e molte volte si rischia di infilare in carriera un lavoro non entusiasmante. Eppure, anche la nuova opera firmata da Giorgio Diritti è molto riuscita.

Innanzitutto è un film coraggioso, girato in situazioni ambientali complicate, faticose, in luoghi non vicini alla storia personale del regista (che tuttavia in Amazzonia in passato aveva già lavorato). Un film che si azzarda su sentieri impegnativi, tanto da far temere a priori il rischio di scivolare nella storia retorica e un po’ stucchevole. Ma Un giorno devi andare alla fine di retorico non ha nulla. Tanto da apparire piuttosto un film duro, spigoloso a dispetto della natura splendida e maestosa resa (molto bene) in fotografia. Soprattutto, è un film spirituale. Laicamente spirituale. Perché nonostante il tema della fede non sia certo marginale, non risulta mai invasivo. Per questo è più giusto dirlo spirituale, di una spiritualità nettamente contrapposta allo spirito dei tempi che conosciamo, quei tempi serrati e oltremodo faticosi della nostra quotidianità cui fanno da contrappunto in particolare gli ultimi quindici minuti della pellicola: ariosi, lenti, eppure non solitari, nonostante la protagonista sia sola in uno spazio immenso. Così il film risulta laico nel senso più pieno, pure con la presenza di suore, missioni, crocifissi, santini e benedizioni varie (ma un cenno a parte merita la contrapposizione di due preghiere assai diverse tra loro, in una stanza d’ospedale, forse uno dei momenti più intensi di tutta la pellicola).

Anche questo film fa di Diritti un autore importante, che sa mostrare un cinema italiano diverso dal solito, una sorta di cinema di pensiero

Dunque anche questo film fa di Diritti un autore importante, che sa mostrare un cinema italiano diverso dal solito, una sorta di cinema di pensiero. Esprime, in questo caso, il bisogno di tornare all’essenziale, o almeno di porsi di fronte all’essenziale, in un mondo lontanissimo, dove le troppe parole che girano dalle parti nostre paiono incomprensibili, del tutto sovradimensionate, assurde e quasi grottesche.

È un film che si fa sentire vicino a chi segue la vicenda di Augusta e del dolore che la indurisce, nonostante la gran parte della storia sia girata dall’altra parte del mondo, nel sud povero dell’America da cui viene il papa che sta appassionando i media e facendo tanto sperare i fedeli. È poi un film femminile, e anche le storie che si incrociano di due giovani donne, in uno scambio commovente di situazioni che fa forse presagire anche uno scambio futuro di ruoli, contribuiscono a renderlo essenziale e concreto.

È poi un film femminile, e anche le storie che si incrociano di due giovani donne contribuiscono a renderlo essenziale e concreto

Settant’anni separano la narrazione dell’Uomo che verrà da quella di Un giorno devi andare, e sulla carta i due film non potrebbero essere più diversi. Eppure, chi ha amato il primo ne ritroverà in questo molti echi. A cominciare dalla delicatissima, prima, inquadratura che si riallaccia alla scena finale dell’Uomo che verrà con la ninna nanna cantata da Martina al fratellino. Perché anche i bimbi a cui capita di nascere nelle favelas brasiliane sono, prima di tutto, uomini e donne che verranno.