La crisi energetica può risvegliare il Pakistan. Il 2012 sarà ricordato in Pakistan per i blackout elettrici da 20 ore e le file di auto in attesa alle stazioni di rifornimento. Carenze di elettricità, gas e benzina sono le conseguenze più evidenti, nonché la punta dell’iceberg, della profonda crisi energetica che sta travolgendo il Paese, già minato da decenni di instabilità politica, da una crescita economica soffocata e dal dilagare delle violenze interne.

La gravità del problema è tale da aver messo in ombra gli scandali per corruzione che hanno coinvolto i nomi più illustri dell’auctoritas politica pachistana, a partire dal premier Gilani del Pakistan peoples party (Ppp), uscito di scena a luglio a favore di Raja Pervaiz Ashraf. Per Gilani, Ashraf e la giovane promessa del Ppp, Bilawal Zardari, figlio ed erede politico della compianta Benazir Bhutto, la crisi energetica costituisce una delle maggiori minacce in vista delle elezioni di maggio, e rischia di favorire la Pakistan muslim league-N di Nawaz Sharif.

L’apice della crisi è giunto a luglio, quando l’energia disponibile non ha raggiunto il 40% della domanda, e 1.800 stazioni di servizio su 3.395 hanno chiuso per la mancanza di carburante. Ciò è accaduto malgrado solo la metà della popolazione pachistana abbia accesso all’elettricità, e il consumo procapite sia di 451 chilowattora, un sesto rispetto alla media mondiale. Il colpo più duro è stato incassato dal fragile apparato industriale, in particolare dal comparto tessile che contribuisce in maggior misura all’export pachistano, con gravi ripercussioni per crescita economica e occupazione.

In sintesi, la crisi in atto scaturisce dall’aumento della domanda, catalizzata negli ultimi 15 anni da industria, trasporti e consumi domestici, cui non sono mai seguite strategie sostenibili da parte dei diversi governi al potere. Con il progressivo esaurimento delle riserve petrolifere del Kyber Pakhtunkhwa e dei giacimenti di gas del Balucistan, è venuta meno anche l’autonomia energetica di Islamabad, rendendo inevitabile l’intensificazione delle costose importazioni di greggio. A complicare le cose contribuiscono le centrali termiche obsolete (causa di enormi dispersioni durante il processo di trasformazione), al pari della rete di trasmissione minata da pesanti perdite e dall’assenza di adeguati sistemi di conservazione dell’energia. Vengono poi i furti di elettricità, endemici nei centri urbani, dove grovigli di fili e collegamenti abusivi alimentano abitazioni, uffici e aziende. Secondo gli economisti pachistani, la crisi in corso deriva dal mancato pagamento delle forniture (solo l’1% viene regolato), condizione all’origine di quello che definiscono “debito circolante”, giunto a 4 miliardi di euro: il governo, impossibilitato a farsi saldare l’elettricità erogata, rimanda continuamente i pagamenti dell’energia richiesta, mettendo in difficoltà le società produttrici che a loro volta non saldano i fornitori di gas e petrolio. Di conseguenza, le centrali elettriche chiudono o lavorano a regimi fortemente ridotti, alimentando la spirale debitoria.

La ripresa dalla crisi energetica richiede forza politica e capacità finanziaria, condizioni assenti in questa fase storica, ma che gli elettori pretendono dal governo che voteranno a maggio. Islamabad dovrà, in primis, snellire la macchina gestionale del comparto, ora composta da 6 ministeri e 42 agenzie scollegati tra loro e incapaci di coordinare produzione, distribuzione e pagamenti. Serviranno subito 10 miliardi di euro per rinnovare le infrastrutture esistenti, ridimensionare il debito circolante e quindi bilanciare i prezzi del gas, attualmente del 30% sotto il valore di mercato. Altri 20 miliardi di euro andranno nella ristrutturazione del comparto, a partire dalla definizione di un nuovo mix energetico (l’insieme delle risorse impiegate per la produzione di energia), pesantemente sbilanciato verso gas e petrolio. Sarà indispensabile sfruttare il carbone del Thar, in Sindh, sufficiente a produrre 100.000 Mw di energia per 30 anni, ma ad oggi ancora inutilizzato. C’è poi l’acqua dei grandi ghiacciai, con un piano per la realizzazione di 40 dighe in Karakorum sostenuto dalla Energy wing planning commission, ma minato dall’indolenza del governo e dalle strategie dell’India in Kashmir. Qui New Delhi sta realizzando 33 sbarramenti in grado di limitare il corso dei fiumi pakistani, in violazione agli accordi di gestione delle acque comuni sanciti dall’Indus water treaty (Iwt) del 1960.

Per quanto grave e complessa, la crisi energetica offre comunque al Pakistan l’opportunità di riabilitare la propria immagine e rilanciare l’economia, trasformandosi in centro energetico di distribuzione. La posizione strategica tra Asia centrale e meridionale, Medio Oriente e Cina, deve essere sfruttata per attirare investimenti e tecnologie stranieri con cui rinnovare le infrastrutture esistenti, collegandole ai sistemi regionali di trasporto in esecuzione. Uno di questi è l’Ip, gasdotto che entro il 2014, e malgrado l’ostruzionismo americano, unirà i giacimenti iraniani al Pakistan, per proseguire poi verso India o Cina. Con il supporto della Asian development bank e degli Stati Uniti avanza anche il Tapi (Trans-Afghanistan pipeline), condotto che punta ad allacciare il gas turkmeno all’India, attraverso Afghanistan e Pakistan. C’è, infine, il porto di Gwadar, nel Sud del Paese, realizzato quasi interamente da Pechino sullo stretto di Ormuz, dove transita il 20% del petrolio mondiale, con la prospettiva di diventare un’enorme raffineria da collegare allo Xinjiang cinese attraverso la Karakorum Highway.

La rivoluzione energetica del Pakistan non potrà che iniziare dalla gente comune, e le imminenti elezioni sono l’occasione per tagliare i ponti con il passato. Malgrado le minacce di attentati e i tentativi di boicottaggio del voto dei gruppi fondamentalisti, il fervore politico di milioni di elettori cresce giorno dopo giorno all’insegna di un binomio comune richiesto a gran voce: “ripresa e cambiamento”.