Al netto di tutte le illazioni e le ipotesi circa i motivi “veri” delle dimissioni di Benedetto XVI, nei giorni scorsi è apparsa diffusa e largamente condivisa la convinzione che il gesto del pontefice rinvii ai grandi problemi della Chiesa e, al tempo stesso, li attesti come irrisolti. Il primo problema (l’ordine non attiene a un criterio classificatorio) era rappresentato dallo scandalo relativo alla larga diffusione di abusi sessuali su minori da parte di numerosi uomini di Chiesa (e agli esecrabili tentativi di coprire tali comportamenti), ma anche alla presenza di “comportamenti inappropriati” fra uomini di Chiesa adulti, non solo sacerdoti.

Il secondo problema veniva individuato, confortato anche grazie a esplicite e non rare espressioni di Benedetto XVI, nelle divisioni interne non tanto alla Chiesa, quanto alla curia romana: questione apparentemente confinata nelle mura vaticane, che però finiva per esondare massicciamente dal modesto perimetro del piccolo Stato per le relazioni che corrono fra papa e curia, fra curia e vescovi e, più in generale, fra papa e collegio episcopale.

Il terzo problema, sempre per citare questioni largamente correnti e condivise nel più ampio e generale dibattito, era costituito dall’incredibile e opaca realtà della banca dello Stato di Città del Vaticano. Un problema che attestava una notevole incrinatura nel rispetto del settimo comandamento. Piccola nota agrodolce: un mio famigliare mi ha fatto scoprire che fra i romani di vecchia data la formula S.C.V. va correttamente letta “Se Cristo Venisse”, con l’aggiunta di un bel punto esclamativo.

Ma nel procedere del dibattito una cosa soprattutto mi ha colpito. Tutti i protagonisti del flusso comunicativo - giornalisti, opinionisti, sacerdoti, vescovi e cardinali -, in un ricco profluvio di dichiarazioni, interviste, interventi a tavole rotonde e persino citazioni tratte da omelie, continuavano a parlare della Chiesa di Benedetto XVI, dei problemi non risolti dalla Chiesa di Giovanni Paolo II e spesso finivano per delineare il tipo di papa che sarebbe stato necessario per venirne fuori. Alberto Melloni, parlando con la Cnn, ha introdotto l’archetipo dello “sceriffo” per alludere alla preferenza di elettori e di king maker, i quali desidererebbero un papa che in grado di mettere “le cose a posto”; mentre per altri elettori più miti è necessario puntare a un papa capace di parlare al mondo di oggi, insomma un papa “comunicatore”.

Così, l’orizzonte dei problemi ha finito per essere quello della Chiesa di oggi. La Chiesa di cui si occupano i giornalisti. La Chiesa, e questa è la cosa più seria, che ha espresso il corpo elettorale che è ora in conclave. Parliamo di un corpo elettorale che per oggettivi limiti di età non ha al suo interno un solo elettore che abbia vissuto dentro la grande aula di San Pietro, fra il 1963 e il 1965, l’esperienza del Concilio Vaticano II. Un corpo elettorale nominato da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI e in larga misura selezionato dalla curia romana.

Nel grande flusso della comunicazione la figura di Giovanni XXIII e la realtà del Vaticano II non hanno avuto praticamente alcun rilievo. Fatto salvo un accenno iniziale di Mancuso, che non è stato raccolto, abbiamo dovuto attendere “Il Sole- 24 Ore” del 10 marzo dove un vescovo teologo, Bruno Forte, ha cercato di colmare un’assenza che ormai aveva assunto la dimensione di una voragine scrivendo: “al nuovo Papa, e al collegio dei vescovi con lui (il corsivo è mio), si presenta la sfida ineludibile di avanzare [sulla] strada, in continuità col messaggio del Concilio Vaticano II. […] I cinquant’anni dall’apertura del Vaticano II richiamano alla memoria di tutti lo stile di bontà e di fiducia di Giovanni XXIII”. Per dirla in modo brutale, la stragrande maggioranza dei padri che stanno per eleggere il nuovo papa sembrano risentire, nei fatti, del clima di rimozione del Concilio Vaticano II, promosso da coloro che li hanno selezionati.

Alla sortita di Bruno Forte si è accompagnato incredibilmente su “la Repubblica” dell’11 marzo un divertente e divertito racconto di uno scrittore americano di 87 anni che occupava un’intera pagina. L’autore, Elmore Leonard, cresciuto in una famiglia cattolica, che prima e dopo aver combattuto nella Seconda guerra mondiale ha frequentato le scuole dei gesuiti, trova il modo di scrivere in maniera semplice e diretta “Io credo che la Chiesa abbia bisogno di qualcuno come Giovanni XXIII, grande esempio di umiltà che spalancò le porte a un nuovo modo di pensare”.

Un vescovo teologo italiano e un anziano laico americano che scrive romanzi ci hanno ricordato in extremis il vero enorme problema della Chiesa di oggi rispetto al quale gli altri di cui tanto si è parlato costituiscono conseguenze gravissime, ma concettualmente accessorie.

La Chiesa del Vaticano, la curia romana, il modo di governare la Chiesa universale a partire dallo Stato della Città del Vaticano hanno messo in moto la rimozione del Vaticano II anche, o forse soprattutto, selezionando i vescovi sulla misura delle proprie preoccupazioni, dei propri obiettivi, delle proprie prassi. Credo proprio che tocchi ai laici, alla loro maturità – anche se finora, soprattutto quelli italiani, non hanno utilizzato gli spazi e le aperture di credito definite dal Vaticano II – e alle loro capacità organizzative mettere in campo iniziative e processi formativi che, intorno alla metà del secolo corrente, impediranno a qualche buon parroco di porsi la domanda: “Angelo Roncalli. Chi era costui?”.