Un corpo senza testa. Era nell’aria da qualche giorno, tanto che qualcuno aveva ventilato fosse già morto da tempo, ma il pomeriggio (sera in Italia) del 5 marzo la notizia è rimbalzata su tutti i canali di informazione (persino su quel “El País” che qualche mese fa aveva mostrato la foto fasulla di un Chávez in fin di vita): Hugo Chávez è morto! Con lui se ne va una delle figure più influenti della politica latinoamericana e mondiale. Influente, non controversa e neppure innovativa. La traiettoria personale, lo stile politico, la dialettica e i messaggi di Chávez non erano nuovi nel panorama sudamericano. Ciò che in molti piangono (e altri festeggiano) è la morte dell’ennesimo caudillo populista, per nulla diverso dai vari Perón, Vargas, Castro e tanti altri ancora che tanto successo hanno avuto (e continuano ad avere) in questa parte del mondo. E la retorica degli “Hasta siempre, comandante!” che accompagna l’approssimarsi dell’ultimo saluto al presidente non fa altro che rimarcare questa continuità.

Militare golpista, presidente accentratore, leader carismatico, Chávez ha plasmato il sistema politico e l’architettura istituzionale del Venezuela dal 1999 in avanti. Il che, con il passare degli anni, ha reso il Venezuela un modello per altri Paesi latinoamericani, Bolivia e Argentina in testa. Un modello suggestivo che, riecheggiando un passato mitico e prospero, ha prospettato un futuro radioso per il proprio popolo e per tutta l’America Latina. A partire dal netto rifiuto opposto alle dinamiche liberali e capitaliste, il Venezuela costruito da Chávez ha fondato la propria identità sull’idea di uno Stato in diritto e in dovere di intervenire pesantemente nell'economia. E non si tratta “semplicemente” di nazionalizzazioni o di una rigida organizzazione macroeconomica. Le agenzie statali, infatti, hanno condizionato prepotentemente la vita economica di ogni cittadino. Questo “modello” si è realizzato senza ombra di dubbio grazie agli enormi guadagni, conseguenza dell’esorbitante prezzo internazionale del petrolio. Per dirla con altre parole, la pomposa retorica anticapitalista, che Chávez ha costantemente sversato nei media del proprio Paese e in quelli dei propri alleati, si è fondata su una delle regole principali del tanto vituperato capitalismo internazionale: il mercato stabilisce il prezzo dei beni grazie alla regola dell’offerta e della domanda. Senza entrare nelle complesse dinamiche economiche, se ne deduce che un Venezuela anticapitalista, un’America Latina anticapitalista sono possibili solo grazie allo stesso capitalismo.

I progressi sociali del Venezuela chavista sono innegabili. Così come quelli di tutta l’area latinoamericana, guidati da Paesi (come il Cile, ad esempio) che non hanno accettato il “modello” venezuelano. A quale prezzo? Qual è il prezzo da pagare per mantenere intatto il “modello”? I primi costi si chiamano deficit di bilancio, inflazione, mercato, svalutazione. Una volta sgonfiato (perlomeno parzialmente) il prezzo del petrolio, i nodi sono venuti al pettine. Ci si è accorti che questi progressi sociali non sono il frutto di un programma di sviluppo complessivo del Paese. Essi sono, piuttosto, conseguenza di regalie e sussidi oggi insostenibili per il bilancio dello Stato. E mentre i Paesi limitrofi continuavano a crescere rispondendo in maniera positiva alla crisi economica internazionale, il Venezuela frenava bruscamente il proprio sviluppo. Vi è poi un costo politico del “modello” che ha spinto il presidente verso la riforma costituzionale, l’asservimento del potere legislativo e di quello giudiziario alle proprie volontà, la delegittimazione costante di qualsiasi opposizione. Tutto rivendicato pubblicamente nel corso dei lunghi soliloqui televisivi, quando il presidente occupava puntualmente buona parte della programmazione della televisione pubblica. Il “modello”, insomma, definisce un Paese monolitico in cui ogni dissenso viene tacciato di tradimento, in cui il presidente incarna e non rappresenta il popolo. La matrice organicistica e corporativa, ancora una volta in America Latina, non lascia spazio al pluralismo. E allora viene da chiedersi: se questo è il prezzo in termini di libertà, che senso hanno i progressi sociali?

L'altro ieri il Venezuela ha perso il proprio capo, e non solo il proprio presidente. Oggi il Venezuela è un corpo senza testa. Chi scrive non è avvezzo a fare previsioni. Guardando però indietro, fino alla scomparsa dei vari Vargas e Perón, il futuro sembra carico di nubi e il socialismo del XXI secolo coniato da Chavéz sembra essere un fantoccio pronto a incendiare il Paese.