Europe's speech: molto rumore per nulla? Lo scorso 23 gennaio il primo ministro britannico David Cameron ha pronunciato un discorso che non è passato inosservato. Il discorso, previsto per la settimana precedente, era stato rimandato a causa della crisi degli ostaggi tenuti nella località algerina di In Amenas, conclusasi tragicamente con l’intervento delle forze speciali algerine.

Le idee principali espresse nello Europe’s speech sono fondamentalmente tre: Cameron ha constatato lo stato di crisi dell’Ue, ha indicato la propria ricetta per uscire da questa crisi e ha prefigurato le drastiche misure che il Regno Unito potrebbe prendere nel caso in cui l’Unione non cambiasse rotta. Il terzo punto ha fatto scalpore: la proposta di un referendum britannico in-out nel 2017 – in caso di vittoria tory alle prossime elezioni – consentirebbe ai cittadini di esprimersi sulla relazione tra Gran Bretagna e Ue, per la prima volta dal 1973. Il resto del discorso, a dir la verità, riassumeva posizioni comuni alla maggior parte degli aderenti al partito conservatore, e, secondo Cameron, diffuse nella popolazione. In particolare, l’idea che l’Ue non è “un fine in se stessa”, ma deve essere “un mezzo verso benessere e stabilità economiche”.

I mali dell’Ue attuale sarebbero la complessità legislativa e l’eccessiva regolamentazione, che rendono il mercato rigido e asfittico; la distanza delle istituzioni europee dai cittadini; e, infine, la necessità di salvare la moneta unica attraverso misure di controllo, che penalizzerebbe anche i Paesi fuori dall’area euro. Perciò, i cinque pilastri attorno ai quali l’Ue dovrebbe ricostruirsi sono competitività, flessibilità, reversibilità della cessione di poteri all’Unione, accountability democratica, ed equità. Per tutti questi motivi, la Gran Bretagna, ha affermato Cameron, deve rinegoziare i rapporti con l’Unione; e nel caso in cui non riuscisse a ottenere un cambiamento di rotta in linea con le richieste britanniche, dovrebbe ricorrere al referendum.

Le reazioni al discorso non si sono fatte attendere. Ed Miliband, leader dei laburisti e capo dell’opposizione, subito appoggiato dall’ex primo ministro Tony Blair, ha criticato aspramente la posizione di Cameron, giudicandola irresponsabile, nonostante tra le file dei labour gli “euroscettici” che appoggiano l’idea di un referendum non sono pochi. Nick Clegg, leader dei socialdemocratici, attualmente nel governo di coalizione guidato dai conservatori, ha espresso la propria perplessità riguardo alla strategia proposta da Cameron e ha suggerito che ora a vantaggio dell’interesse nazionale bisogna riformare il mercato inglese senza rischiare “anni di opprimente incertezza” nella prospettiva di un referendum che al momento non è necessario, ma che potrebbe diventarlo qualora l’Ue chiedesse alla Gran Bretagna un’ulteriore cessione di poteri.

Sorprendentemente, anche tra i tories l’opzione Brexit – l’uscita dalla Gran Bretagna dall’Ue – ha creato polemiche. Mentre il sindaco di Londra Boris Johnson e il presidente del partito Grant Shapps riconoscono che Cameron ha espresso un’opinione diffusa tra i cittadini britannici, dissente apertamente sul messaggio e sui modi usati dal primo ministro l’influente minoranza europeista – guidata da Lord Geoffrey Howe, ex ministro delle Finanze nell’ultimo governo Thatcher, Kenneth Clarke, attuale ministro senza portafoglio, e Lord Michael Ashcroft, uomo d’affari e filantropo. Proprio quest’ultimo ha pubblicato sul proprio sito un sondaggio effettuato dopo il fatidico discorso, da cui risulta che la posizione di Cameron sull’Europa non porterebbe ai conservatori un vantaggio elettorale apprezzabile, anche se aumenterebbe il gradimento del primo ministro tra gli elettori conservatori. Il problema, sembrerebbe, è che l’Ue non è una delle preoccupazioni principali dell’elettorato britannico. Quanto alla possibilità che i conservatori sottraggano voti all’Uk Independence Party (UKip) di Nigel Farage, un partito minore che, pur attraendo i voti degli “euroscettici” britannici, nelle elezioni del 2010 non è andato oltre il 3,1 % dei voti, anche questa non sembra confermata dal sondaggio di Lord Ashcroft.

Quanto al possibile risultato di un referendum, non sembra scontato. Se a novembre 2011 un sondaggio Opinium per l’“Observer” trovava che il 56% degli intervistati avrebbe votato per uscire dall’Ue, ora che la discussione è avviata ci si aspetta che le reazioni internazionali e il risveglio degli europeisti britannici possano cambiare l’atteggiamento di molti elettori.