La lunga marcia della Repubblica popolare cinese. Nel 1927 il leader cinese Mao Zedong scriveva il celebre rapporto di inchiesta sulla propria esperienza di lavoro politico nelle campagne dello Hunan, la sua regione natìa. In tale rapporto Mao confutava tra l’altro le critiche mosse anche da settori del Partito comunista cinese a proposito degli “eccessi rivoluzionari” dei contadini e affermava che “La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo …”.

Ventidue anni dopo, il 1° ottobre 1949, lo stesso Mao proclamava la nascita della Repubblica popolare cinese (Rpc), frutto proprio della capacità dei comunisti cinesi di convogliare quegli “eccessi” in un progetto rivoluzionario e di dotare lo stesso dello strumento decisivo della forza militare.
A distanza di sessant’anni una ricostruzione complessiva della storia della Rpc appare ancora difficile, soprattutto per quanto concerne alcune fasi particolari (ad esempio, il Grande Balzo in Avanti e gli ultimi anni Cinquanta, la Rivoluzione Culturale e la seconda metà degli anni Sessanta, la grave crisi alla fine degli anni Ottanta con i tragici avvenimenti di Tian’anmen).
In generale, si tende a dividere questi sessant’anni in due grandi fasi: la prima, il trentennio maoista (dal 1949 al 1976), segnato dalla preminenza del Grande Timoniere e dall’intreccio tra approfondimento degli obiettivi rivoluzionari e gestione politica (partito-stato); la seconda, il periodo post-maoista (dal 1976 a oggi), caratterizzato dal programma di riforme (“quattro modernizzazioni”), dall’impetuosa crescita economica, dal crescente ruolo della Cina in ambito regionale e internazionale e dall’emergere di questioni sempre più complesse e sofisticate nel campo della governance. In realtà, si tratta di una suddivisione che tiene poco conto dei molti, importanti passaggi intermedi verificatisi all’interno di ognuna delle due fasi e che, soprattutto, rende marginale il tema della continuità e della discontinuità tra periodo maoista e post-maoista.
E’ comunque ormai un dato indubbio che questo sessantennio abbia rappresentato una fase per certi aspetti straordinaria per la Cina, portando il paese dalla situazione di diffusa miseria, arretratezza, sottosviluppo a una crescita sbalorditiva, a profondi mutamenti sociali e di costume, a una nuova visione del mondo assai diversa dall’approccio autarchico che aveva segnato per tanti anni i rapporti con la realtà internazionale. Si è trattato tuttavia allo stesso tempo di una fase in cui la Cina ha vissuto immani tragedie, ha ricercato strade originali verso una accelerazione insostenibile dello sviluppo interno e ha sperimentato fughe in avanti nella programmazione del futuro. In effetti, il Partito comunista cinese (Pcc) aveva maturato a partire dalla fondazione nel 1921 e sino alla presa del potere nel 1949 una prevalente esperienza nelle aree rurali e nelle zone meno sviluppate dal punto di vista industriale e urbano. Dopo la fondazione della Rpc, fu proprio nella gestione dello stato, nella programmazione dello sviluppo economico, nei rapporti con le città e con soggetti sociali “nuovi” (classe operaia, intellettuali, ceti urbani in generale) che il Pcc si trovò ad affrontare nuove sfide e a doversi misurare con difficoltà e contraddizioni spesso inedite.
Oggi sono gli stessi dirigenti comunisti cinesi a sottolineare, quando riflettono sulla propria esperienza storica, come spesso gli errori compiuti in questi sessant’anni siano nati dal fatto di avere abbandonato la via maestra della flessibilità politica e di una strategia che combinava visione nazionale e specificità locali, come era stato nei periodi più fulgidi della rivoluzione pre-1949. Parafrasando Mao, potremmo dunque dire che l’esperienza di questi sessant’anni insegna che non solo la rivoluzione ma anche l’arte del governare “… non è un pranzo di gala, non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo”.