Se i lavoratori si fanno contestatori. La bozza di riforma del Codice del lavoro non ci è ancora pervenuta, ha dichiarato a fine agosto il parlamentare iraniano Nader Qazipur. Eppure, già a fine 2011, il ministro del Lavoro Ali Reza Sheikholeslami affermava che la riforma era stata “finalizzata” e sarebbe stata a breve trasmessa al Parlamento. Non si tratta però di un semplice ritardo tecnico-legislativo. Esso svela in realtà una dimensione dei rapporti fra società civile e governo spesso dimenticata: quella del mondo del lavoro iraniano. Il rapporto dialettico fra governo e lavoratori struttura buona parte del dibattito socio-economico del Paese.

I tentativi di riforma del Codice del lavoro sono stati infatti avviati da circa sette anni, vale a dire dall'inizio del primo mandato dell'attuale presidente iraniano. La riforma proposta ha come chiaro obiettivo l'indebolimento dei lavoratori e le loro organizzazioni professionali, nonostante queste siano una parte integrante dell'ordine della Repubblica islamica e, peraltro, per nulla sovversive. La proposta di legge del governo prevede la facilitazione dei licenziamenti arbitrari, la diminuzione del numero di rappresentanti di lavoratori nei comitati paritari, la limitazione del già circoscritto diritto di protesta e permette al governo di bloccare gli stipendi se “condizioni economiche nazionali”, un concetto deliberatamente vago, giustificassero tale mossa. La nuova legge offrirebbe inoltre al governo un dominio quasi assoluto nei negoziati socio-economici, nonché un controllo più stretto sulle organizzazioni professionali.

Il mondo del lavoro si oppone in misura quasi unanime alla riforma. Tale opposizione comprende anche i sindacati autorizzati, ivi inclusa la federazione della Casa del lavoratore, storicamente legata all'ordine della Repubblica islamica. I rappresentanti dei lavoratori, implicati di diritto nel processo di consultazione della riforma, hanno infatti più volte espresso le loro perplessità, spesso anche pubblicamente, attraverso l'agenzia di stampa del lavoro iraniano (Ilna), giornali riformisti e provinciali. Si è in seguito assistito all'irruzione di lavoratori contestatori all'interno di discussioni sulla riforma fra parlamentari di Mashhad, petizioni varie, e manifestazioni di centinaia di lavoratori di fronte al Parlamento. Nella regione dell'Azarbaijan orientale, i manifestanti hanno addirittura ripetutamente richiesto le dimissioni del ministro Sheikholeslami.

La reazione del governo, che in passato non ha esitato a utilizzare modi violenti, è stata notevolmente prudente. Più volte, dopo aver dichiarato la riforma “finalizzata”, Sheikholeslami si è visto costretto a promettere di attendere le opinioni dei lavoratori per l'approvazione. Per attenuare le tensioni, il governo si è anche in parte schierato dalla parte della classe operaia in alcune situazioni di conflitto sociale, quale quello che riguarda i cosiddetti “contratti indiretti”. Tali contratti sono molto frequenti nel settore industriale e petrolifero e coinvolgono per esempio più della metà dei lavoratori in certe grandi imprese metallurgiche d'Isfahan. Lavoratori a contratto indiretto sono assunti da un'impresa di “risorse umane” che successivamente “presta” il lavoratore a una parte terza, senza che questi però goda degli stessi diritti dei suoi colleghi a “contratto diretto” presso la stessa impresa. Considerando la forte contestazione operaia di questi contratti in settori fondamentali per l'economia iraniana, il governo, in gran parte per motivi tattici, si è schierato con i lavoratori richiedendo l'assunzione tramite contratto diretto.

Diversi fattori, quali gli agganci politici dei rappresentanti ufficiali dei lavoratori e la loro capacità mobilizzatrice, spiegano la relativa prudenza del governo. Ma vive soprattutto la paura che le frequenti contestazioni da parte degli operai, per ora spesso limitate a richieste economiche, prendano un carattere più politico. Un rischio tutt'altro che teorico. Il 2 settembre scorso, Ilna ha pubblicato alcune dichiarazioni di Haleh Safarzadeh, attivista per i diritti dei lavoratori, che sosteneva che ormai l'unica soluzione ai problemi dei lavoratori fosse “la loro organizzazione e la creazione di sindacati operai indipendenti”. Non esattamente l'effetto sperato dal governo.