È bastato che le decisioni, assunte dall’Eurogruppo del 9 luglio, abbiano palesato l’inconsistenza di un meccanismo anti-spread privato dell’accesso ai finanziamenti della Bce e che un passaggio dell’Eurogruppo del 20 luglio abbia addossato al bilancio pubblico spagnolo gli oneri del già programmato intervento diretto a sostegno delle banche di quel Paese perché l’Uem ripiombasse nel caos e si apprestasse a rivivere un’estate da incubo sulla falsariga di quanto avvenuto un anno fa. Si può essere tentati di giustificare l’impennata della febbre europea con una concatenazione di eventi negativi.

È certamente vero che la decisione assunta dai giudici costituzionali tedeschi di rinviare a metà settembre il «via libera» al meccanismo di sostegno permanente (l’Esm), ha impedito che la ricapitalizzazione delle banche spagnole avvenisse senza corrispondenti oneri finanziari per gli Stati membri dell’Uem non sottoposti a un programma di aiuti. Ed è vero che, scegliendo di minimizzare la portata dei problemi del suo settore bancario e la situazione di bancarotta di molte sue regioni, il governo spagnolo ha adottato comportamenti irresponsabili che hanno reso inevitabile l’imminente attivazione degli interventi europei di sostegno già in atto per la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo. Così come resta vero che le incertezze sul futuro politico dell’Italia e la connessa opacità degli indirizzi di politica economica delle sue possibili coalizioni di governo hanno accresciuto la vulnerabilità al contagio del Paese, che resta lo spartiacque rispetto ai destini dell’Uem, e ne hanno indebolito i processi di consolidamento fiscale e di recupero di competitività.

Nonostante tutto ciò, resto convinto che il fattore decisivo dell’acuirsi della crisi europea sia costituito dalla discrepanza fra i promettenti accordi sui principi, raggiunti nelle riunioni intergovernative del Consiglio europeo, e la miseria della loro traduzione pratica, preparata da ricorrenti e corrosive polemiche politiche nei Paesi «forti» e da dannosi trionfalismi nei Paesi «periferici». È come se i responsabili nazionali delle scelte politiche europee fossero pronti ad accordarsi sulle finalità e sulle regole del gioco, salvo poi barare al momento del suo effettivo svolgimento pur di ottenere piccoli vantaggi nel posizionamento di breve termine.

Al riguardo, i due casi emblematici sono rappresentati dal salvataggio delle banche spagnole e dall’attuazione di comportamenti più flessibili ed efficienti da parte dei meccanismi «salva Stati» per contenere gli spread fra i titoli del debito pubblico dei Paesi più deboli e quelli dei Paesi più «forti».

Di fronte all’evidente complessità del processo di unione bancaria e alla situazione di emergenza di molte banche spagnole, l’Eurogruppo del 9 luglio ha deciso di dare attuazione a un immediato intervento di sostegno che non coinvolgesse direttamente il bilancio pubblico della Spagna. Per di più, a fronte dell’impossibilità di utilizzare subito il meccanismo permanente Esm, esso si è affidato al meccanismo temporaneo Efsf ma ha lasciato intendere che i conseguenti oneri finanziari per gli Stati membri avrebbero potuto essere riassorbiti in futuro dall’Esm. Al solo apparente scopo di tradurre in pratica queste decisioni, l’Eurogruppo del 20 luglio ha però aggiunto che «il governo spagnolo manterrà la piena responsabilità dell’assistenza finanziaria» alle sue banche. In tal modo, ha spinto Eurostat a dichiarare che l’onere del salvataggio andrà addebitato al bilancio pubblico spagnolo sia nel caso dell’intervento dell’Efsf che nel caso del futuro intervento dell’Esm. E ciò è bastato a spingere la Spagna sull’orlo dell’abisso e ad accelerare la sua caduta nella rete del programma europeo di aiuti.

Questo risultato ha reso ancora più pesante la mancata attuazione di un credibile strumento di calmieramento degli spread. Le seppur generiche aperture del Consiglio europeo di fine giugno hanno, infatti, portato l’Eurogruppo del 9 luglio a produrre un accordo peggiorativo della situazione esistente. La Bce ha assunto la funzione di agente nei confronti degli interventi dell’Efsf (e, in futuro, dell’Esm) sui mercati secondari dei titoli pubblici dei Paesi in «virtuosa difficoltà» senza, peraltro, allentare i preesistenti vincoli finanziari di tali meccanismi. Si è così comunicato al mercato che, di fatto, gli interventi dei meccanismi «salva Stati» non avrebbero acquisito alcun margine di flessibilità e che la Bce avrebbe potuto limitarsi a un ruolo di esecutore senza ripristinare la sua politica attiva di acquirente dei titoli sovrani dei Paesi in difficoltà. Non è sorprendente che un simile annuncio abbia esposto l’Italia al contagio.

A un anno dalla più rovinosa fase di crisi attraversata dall’euro, l’Uem si ritrova così al punto di partenza. La situazione appare però appesantita dal fatto che molte risorse sono state impiegate per uscire dal precedente abisso. Come allora, il solo attore in grado di fronteggiare la situazione è la Bce. Speriamo che Mario Draghi decida, davvero, di operare senza alcun tabù.