Nei giorni scorsi si è diffusa la preoccupazione per un rischio di default della Regione Sicilia. Si tratta di un problema particolare o siamo di fronte a un fenomeno ben più vasto? In realtà la questione va ben al di là del caso Sicilia. Se infatti non si tiene solo conto del debito regionale in senso stretto, ma dei trasferimenti netti a favore delle regioni e degli enti locali del Sud, siamo in presenza di un deficit strutturale del Mezzogiorno stimato dalla Banca d’Italia in circa 60 miliardi all’anno (lo Stato incassa molto meno di quello che spende). Valori simili riguardano i trasferimenti realizzati nell’ultimo sessantennio.

Certo, questi trasferimenti servono per garantire l’accesso ai servizi fondamentali dei cittadini meridionali secondo il dettato della nostra Costituzione, e servono per promuovere lo sviluppo economico. Ma dopo sessant’anni è evidente che essi alimentano un’offerta di servizi e infrastrutture gravemente inefficiente, e non sono stati in grado di innescare uno sviluppo economico autonomo nel Sud, mentre gravano pesantemente sulle finanze pubbliche. È altrettanto chiaro che i vincoli posti dalla globalizzazione dell’economia e dall’integrazione europea non consentono più di continuare su questa strada, come le vicende della crisi in corso mostrano ampiamente. Una svolta è indispensabile.

La Sicilia, come Regione statuto speciale, ha avuto più trasferimenti e più autonomia nell’impiego delle risorse. Avrebbe dovuto crescere di più, e invece ha speso di più e si è sviluppata meno delle stesse regioni meridionali. Il motivo principale non va cercato nella carenza di fondi, come una certa retorica meridionalista continua a sostenere, ma in un’autonomia senza controlli e senza responsabilizzazione. Questo modello, pur con differenze da non trascurare, è diventato il principale freno allo sviluppo. Poteri e risorse controllati dagli enti locali e dalle regioni sono cresciuti negli ultimi decenni, ma sono stati usati per interventi assistenziali come strumento di acquisizione del consenso (la spesa corrente è cresciuta molto di più di quella in conto capitale, e all’interno di quest’ultima gli incentivi alle imprese hanno pesato molto rispetto agli investimenti pubblici).La storia siciliana è dunque il caso limite di una tendenza più generale. Le responsabilità non vanno però attribuite solo alle classi dirigenti locali e alla cultura sociale e politica che le sostiene. I governi nazionali hanno trasferito risorse senza porre vincoli e controlli perché il Sud ha tradizionalmente funzionato come «esercito elettorale di riserva».

Occorre allora porre il Mezzogiorno più al centro dell’agenda della crescita da parte del Governo, quantomeno cominciando a invertire la rotta del passato. Si faccia sul serio con la Sicilia, si accerti rapidamente la vera entità del debito, e se necessario si intervenga con poteri sostitutivi. Ma non ci si fermi alla Sicilia. Vanno contrastate energicamente e organicamente distorsioni nell’allocazione delle risorse da parte degli enti locali e regionali, che non solo gravano sulla finanza pubblica, ma finiscono per essere di ostacolo allo sviluppo perché penalizzano le condizioni di vita dei cittadini, creano aree di rendita, favoriscono le infiltrazioni della criminalità, ostacolano la crescita di solide attività di mercato. Un’analoga strada andrebbe perseguita con determinazione anche per lo scarso e inefficiente uso dei fondi regionali europei.

Certo il Governo tecnico ha poco tempo, ma è anche meno soggetto alla pressione elettorale. Forse il tempo è sufficiente almeno per avviare una svolta, per aprire un percorso diverso, nella consapevolezza che la crescita dell’Italia si decide nel Mezzogiorno.