Dopo l’intervento sulle pensioni il governo ha posto al centro della sua agenda il problema della crescita dell’economia italiana. L’attenzione si è finora concentrata soprattutto su liberalizzazioni e regolazione dei rapporti di lavoro. Sono certo aspetti importanti, insieme ad altri dei quali si parla, come la sempre invocata semplificazione amministrativa e l’efficienza della giustizia civile. Colpisce però l’assenza dalla scena del problema del Mezzogiorno. Eppure, è impossibile immaginare una crescita solida e un’Italia più civile se non si affermerà in quest’area del Paese uno sviluppo autonomo capace di autosostenersi.

Su quest’assenza pesano certo i fallimenti del passato e i timori di aprire un fronte che comporti nuove spese. Ma è proprio questo legame tra sviluppo delle regioni meridionali e maggiore spesa che andrebbe rimesso in discussione: da un lato, una strategia efficace per il Sud non dovrebbe essere vista necessariamente come foriera di nuova spesa; dall’altro un Sud che imboccasse la strada di uno sviluppo autonomo libererebbe risorse decisive per la crescita di tutto il Paese.

La pressione fiscale e contributiva sulle imprese e sul lavoro è particolarmente alta, ed è ulteriormente cresciuta per far fronte alle tensioni finanziarie (il carico sui redditi d’impresa è il più alto in Europa e raggiunge il 68%; il «cuneo fiscale» è tra i più elevati). Attenuare questo fardello pesante che grava sulle imprese e sul lavoro è indispensabile per poter competere più efficacemente nell’economia globalizzata, per migliorare le condizioni dei lavoratori, e quindi per crescere. Per farlo occorre ridurre il debito pubblico recuperando risorse. Una componente cruciale di tale strategia sarebbe quella di abbassare il carico sulla fiscalità generale dei trasferimenti a favore delle regioni meridionali. Il loro importo pesa ogni anno quasi come il finanziamento del debito (circa 60 miliardi). Non si tratta certo di limitare per i cittadini del Sud la fruizione – garantita dalla Costituzione - di servizi fondamentali come l’istruzione, la sanità, l’assistenza, ma di operare perché il costo di questi servizi possa essere contenuto, eliminando inefficienze e assistenzialismo, e soprattutto di fare in modo che il costo possa essere sempre più sostenuto e finanziato con risorse proprie dalle regioni meridionali attraverso una crescita significativa del reddito da esse prodotto. In questo senso dunque, lo sviluppo del Mezzogiorno è ancor più che in passato strettamente legato a quello di tutto il Paese.

Ma è possibile promuovere lo sviluppo del Sud risparmiando risorse? Bisognerebbe lavorarci con la determinazione che finora è mancata, e anche cercando strade nuove. Le premesse ci sono più che nel passato. Nelle regioni meridionali sono infatti disponibili delle risorse locali sottoutilizzate che riguardano in particolare il patrimonio culturale e ambientale, le conoscenze scientifiche radicate nelle università, il saper fare diffuso in agricoltura. Le trasformazioni dei mercati e le tendenze della domanda offrono oggi condizioni più favorevoli per la messa a valore di tali risorse locali, a patto che non si continui a inseguire una generica industrializzazione a suon d’incentivi. Ci sono potenzialità nuove, ed è possibile coglierle con interventi non particolarmente onerosi per la finanza pubblica. Basterebbe ridurre drasticamente il peso d’incentivi tanto costosi quanto inefficienti (100 miliardi mal spesi nell’ultimo quindicennio) e utilizzarne anche solo una parte per infrastrutture e servizi collettivi capaci di sostenere la valorizzazione delle risorse locali. Se si dedicasse a questi obiettivi solo lo stesso impegno profuso sull’articolo 18?