Viktor e gli indignati. Negli ultimi giorni sembrano essersi avverate le più fosche previsioni sul futuro del Paese. L’esecutivo guidato da Viktor Orbán è giunto a un bivio secondo alcuni; in un vicolo cieco senza ritorno secondo altri. Sul fronte finanziario, tutte le agenzie di rating hanno declassato a spazzatura i titoli di Stato ungheresi, le cui aste vanno quasi deserte, con redimenti superiori all’11%, un livello insostenibile sul medio periodo. La moneta continua a deprezzarsi rispetto all’euro, al dollaro e al franco svizzero, aggravando il già pesante indebitamento (oltre l’80%) che l’Ungheria ha contratto per oltre metà in valuta estera. Il problema maggiore è però politico.

Diversi provvedimenti attuati nell’ultimo anno e mezzo dal governo Orbán – dalla legge sui media alla nuova Costituzione appena entrata in vigore; dalla nazionalizzazione dei fondi pensione privati alle tasse sul profitto delle compagnie operanti nei settori finanziario, energetico e delle comunicazioni, per concludere con la recente legge che restringe l’autonomia operativa della Banca nazionale ungherese – hanno innescato una crisi di fiducia senza precedenti fra Budapest e i suoi principali partner internazionali. Parlare di un Paese avviato verso la dittatura è fuorviante e testimonia una scarsa capacità di leggere la realtà ungherese. In un regime autoritario le manifestazioni di piazza vengono disperse con la forza o scoraggiate, mentre i media non ne fanno menzione: la grande protesta popolare del 2 gennaio davanti dal teatro dell’Opera ha conquistato la prima pagina di tutti i mezzi di informazione ungheresi ed europei e la stampa indipendente, dalle televisioni ai popolarissimi quotidiani online index e origo, critica in modo netto  l’esecutivo.

Tuttavia, la situazione che il governo di Budapest ha creato con una politica economica e culturale a dir poco muscolare, motivata con la maggioranza dei due terzi dei seggi parlamentari, rappresenta un serio test per le istituzioni internazionali. Ad alimentare la speculazione finanziaria non è infatti la reale situazione economica del paese, difficile ma niente affatto catastrofica: nel 2011 la crescita è stata dell’1,5%; l’inflazione è al 4%; il deficit poco sopra il 3%; le riserve valutarie, al massimo storico, superano i 38 miliardi di euro. Il vero problema è la crescente percezione dell’inaffidabilità politica della compagine governativa.

Dopo avere tollerato per oltre un anno le stravaganze ungheresi, Bruxelles sembra avere deciso l’attuazione di una linea dura nei confronti di Orbán, che resta fra l’altro uno dei vicepresidenti del Partito popolare europeo. Non solo i socialisti, i verdi e i liberali europei, ma anche il Partito popolare e i governi tedesco e francese hanno chiesto più o meno esplicitamente di punire il governo ungherese, anche per inviare un segnale a ogni potenziale seguace. Fra gli strumenti ventilati compaiono la sospensione del diritto di voto in sede di Consiglio europeo e l’espulsione della Fidesz dal Ppe. Ma soprattutto, vi è l’arma finanziaria: il 18 gennaio a Washington si terrà la riunione mensile del consiglio di amministrazione del Fmi, cui l’Ungheria si è rivolta a novembre con una richiesta di assistenza, ponendo di fatto fine a quella che il premier aveva enfaticamente definito nel 2010 una "lotta per la libertà" economica. Se il Fondo, di concerto con l’Ue e con la Banca centrale europea, negasse aiuto a Budapest o le sottoponesse condizioni politicamente inaccettabili, si aprirebbero due scenari: le dimissioni di Orbán e la formazione di un governo tecnico sul modello italo-greco, o l’ulteriore inasprimento della crisi, con la (per ora remota) eventualità di un default o di un isolamento politico delle autorità ungheresi dalle istituzioni europee.

Contrariamente alle speranze di molti intellettuali di opposizione e della stampa europea, tuttavia, a profittare del boicottaggio non sarebbe l’opposizione di sinistra – impopolare e scredidata almeno quanto i partiti di governo – ma la destra radicale di Jobbik, che raccoglie consensi anche per il suo euroscetticismo antiglobalista. Le ultime notizie lasciano presagire, quantomeno sui dossier economici, una maggiore flessibilità da parte del governo ungherese, pressato anche dai sondaggi che lo danno in forte calo di popolarità. L’imminente viaggio a Washington del capodelegazione Tamás Fellegi, incaricato di avviare le trattative per la riapertura di una linea di credito, rappresenta la prima di una serie di verifiche cruciali per il futuro del Paese. In ogni caso, il pieno rientro nel concerto internazionale sarà lento e doloroso.