L’anno della protesta. «Il/la Dimostrante è la Persona dell’anno scelta dal "Time" per il 2011», ha annunciato Rick Stengel, direttore responsabile del magazine statunitense. Giacché «ovunque le persone hanno detto che ne avevano abbastanza. Hanno dissentito. Hanno rivendicato. Non si sono disperate […]. Hanno letteralmente dato corpo all’idea che l’azione individuale può portare a un colossale cambiamento collettivo». The Protester è una figura indistinta e globale, ha il volto stilizzato di una manifestante di Occupy Los Angeles, ma racchiude in sé tutte le donne e gli uomini che, nel corso del 2011, hanno partecipato alle grandi manifestazioni di piazza, «dalla primavera araba ad Atene, da Occupy Wall Street a Mosca…». Allo scrittore e giornalista Kurt Andersen «Time» affida il compito di spiegare cosa accomuna i protesters: certo, ammette, la posta in gioco varia nei diversi luoghi; tuttavia, l’aspetto più rilevante è quanto le «avanguardie della protesta» siano simili: ovunque i protagonisti sono soprattutto giovani, di classe media e istruiti, agiscono quasi sempre in autonomia dai partiti esistenti e fanno largo uso di Internet per mettersi in relazione. Hanno in comune la convinzione che «le economie e i sistemi politici dei loro paesi siano cresciuti in modo disfunzionale e corrotto», producendo «false democrazie manovrate per favorire i ricchi e i potenti e prevenire significativi cambiamenti». Due decenni dopo la caduta del comunismo, stanno sperimentando il fallimento dell’ipercapitalismo e domandano un «nuovo contratto sociale». Si tratta di una svolta così radicale che, secondo Andersen, non può essere associata a nessun altro evento nella storia umana recente, e per trovare qualcosa di analogo occorre risalire al 1848.

Dalla scintilla di Sidi Bouzid, in Tunisia, con un effetto-domino la protesta si è diffusa al mondo intero: gli altri Paesi arabi, l’Europa, Israele, gli Stati Uniti, infine la Russia; non solo l’ispirazione, ma anche le tecniche di protesta hanno attraversato i confini, e gli «accampamenti auto-governati» sono divenuti uno dei simboli della resistenza. Questo, secondo Andersen, ha messo in evidenza due fenomeni: prima di tutto, la globalizzazione e la comunicazione virale hanno assunto un significato nuovo, svincolato dall’economia e al contrario legato all’idea di democrazia; in secondo luogo, gli Stati Uniti si sono trovati nella condizione di recettori di input elaborati altrove. D’altra parte, poiché ciò è stato possibile grazie agli strumenti tecnologici che l’Occidente ha creato, Andersen conclude che «il più grande contributo dell’America per esportare la democrazia all’estero non è stato imporla militarmente, ma renderla possibile tecnologicamente». Ciononostante, avverte Stengel, se la tecnologia «ha diffuso il virus della protesta», si è trattato di una «rivoluzione umana, dei cuori e delle menti, le tecnologie più antiche».

La scelta del/della Dimostrante come Persona dell’anno ha suscitato nel complesso reazioni meno polemiche di quelle provocate dalla nomina di Zuckerberg, l’anno scorso. Maggiore fastidio è stato espresso dagli ambienti conservatori, pronti a tributare i dovuti onori ai dimostranti di Piazza Tahrir, ma meno inclini a simpatizzare con i manifestanti di Occupy Wall Street. Ne è prova il sarcasmo dell’editoriale di Al Lewis su «FoxBusiness» («l’anno scorso, per essere la persona dell’anno, dovevi aver inventato Facebook; quest’anno, tutto ciò che dovevi fare era lamentarti»), o gli stizziti commenti dei lettori del «The Wall Street Journal», che avrebbero preferito candidati più concreti e più «americani». Eppure, nel riconoscere il valore della protesta mondiale, «Time» sembra aver voluto celebrare anche le virtù dell’America delle origini che, ricorda Stengel, «è una nazione concepita nella protesta, e la protesta è in qualche modo il codice sorgente per la democrazia, e il segno della sua assenza».