I primi sei mesi alla Casa Bianca del nuovo inquilino Barack Obama. A quasi sei mesi dalla sua inaugurazione, l’amministrazione Obama veleggia ancora in condizioni molto favorevoli ma le nubi che potrebbero metterla in difficoltà cominciano a essere chiaramente distinguibili all’orizzonte. I sondaggi dicono che la stima per il presidente è sempre molto alta, e c’è una diffusa fiducia nella sua competenza. Per converso la popolarità dei repubblicani – screditati, acrimoniosi, privi di leve efficaci d’influenza - è più bassa che mai. Ma non tutto è così roseo come questi dati potrebbero far pensare.
In primo luogo la pazienza con cui gli americani hanno finora sopportato la crisi economica non può ovviamente essere infinita. Obama ha scommesso molto sugli effetti del massiccio stimolo, e la sua amministrazione inizierà a soffrire se nel prossimo inverno non cominciassero a vedersi dei risultati. La recessione ha smesso di peggiorare ma la disoccupazione continua a crescere e veri segni di ripresa ancora non si vedono: alla lunga sarà questo a essere determinante.
In secondo luogo, la preoccupazione per i conti pubblici – ormai spinti verso un deficit molto alto – sta cominciando a manifestarsi apertamente. Finché non verranno delineate misure convincenti di rientro, e ancora non se ne vedono, il timore che prima o poi si renda necessario aumentare sensibilmente le tasse si aggiungerà alle preoccupazioni già grandi delle famiglie americane, con la conseguenza di erodere progressivamente la fiducia attuale.
Sarà su questo crinale che si giocherà la futura partita politica di Obama. Perché se la necessità dello stimolo all’economia era condivisa, le grandi misure che lui adesso sta spingendo – riforma del sistema sanitario e controllo delle emissioni inquinanti – coinvolgono una varietà di interessi diversi e spesso contrapposti, rischiano di arenarsi o snaturarsi in profonde divisioni e possono facilmente risolversi in un deficit ancora maggiore.
Naturalmente Obama ha un enorme capitale politico da spendere e ha finora mostrato di saperlo manovrare con perizia. Ha deciso di spingere simultaneamente su più fronti sia per ottenere presto risultati significativi sia per rendere più difficile il coagularsi di un’opposizione. La sua tattica di definire obbiettivi ambiziosi e lasciare poi ai dirigenti del Congresso il compito di tradurli in specifiche proposte legislative gli consente di mantenere unite la fazioni del suo partito e facilitare soluzioni di compromesso che stemperino il conflitto politico invece di attizzarlo. Ma i compromessi legislativi possono facilmente tradursi in un aumento della spesa pubblica piuttosto che nel suo controllo, e se le soluzioni riformatrici fossero incerte o di basso profilo la delusione potrebbe sfociare in un clima di recriminazioni e progressiva sfiducia.
La complessità della riforma sanitaria, in particolare, evidenzia tutti questi problemi. Si tratta di estendere la copertura ai non assicurati, ma senza fare esplodere i conti pubblici. Bisogna frenare una spesa esagerata, ma senza privare gli utenti dei servizi cui sono abituati. E tutto questo senza venir travolti dalle ovvie resistenze dei grandi attori privati della sanità americana: assicurazioni, medici, aziende ospedaliere. Far quadrare questo cerchio così segmentato richiede la forza di far pagare di più a molti – sotto forma di tasse e minori profitti – mantenendo la riforma su un piano di equità e legittimità condivisibile dai più.
Anche sulla politica estera Obama si troverà presto a dover transitare dall’indubbio recupero di prestigio e legittimazione che ha già dato agli Stati Uniti, ad una dimostrabile efficacia nello sciogliere nodi terribilmente complessi, e forse insolubili: una qualche pace in Palestina, il contenimento del fondamentalismo militante in Afghanistan e Pakistan, una politica che dissuada l’Iran dal divenire potenza nucleare.
Nel suo linguaggio come nei primi gesti concreti – ad esempio la ferma reazione ai golpisti dell’Honduras – Obama mostra una grande capacità di rimodellare non solo l’immagine ma l’approccio degli Stati Uniti ai nodi di crisi. E di voler cercar soluzioni nuove liberandosi da schemi che hanno fallito. Se e quanto egli riuscirà effettivamente ad essere efficace non è però ancora dato di sapere. Ma è da quello che dipenderà il suo futuro, e in tempi neanche troppo lunghi.