Otto marzo 2018: siamo a due anni dall’obiettivo stabilito dal più ampio e longevo progetto di ricerca e advocacy sulle donne nei mezzi d’informazione
Di chi è la colpa? Chi è che crea gli stati d’animo nel Paese? Chi dà fuoco alle ceneri e chi crea l’immaginario che poi alimenta i comportamenti individuali e politici? I giornali? Già la parola sembra antiquata. I quotidiani, in Italia, li leggono da sempre in pochi.
Il 4 marzo la Svizzera andrà a votare per decidere se abolire il servizio pubblico radiotelevisivo, la Ssr. Si tratta di un’iniziativa popolare di modifica costituzionale promossa dall’Udc, un partito conservatore con orientamento nazionalista iperliberista.
È una descrizione amabilissima quella che ha fatto di recente Claudio Magris sul "Corriere della Sera". Parla dell’ossessivo lavoro digitale che affligge l’uomo moderno, sottraendogli tempo vitale e costringendolo a rincorrere incessantemente messaggini, email e altre connessioni virtuali a scapito di quelle reali.
Vi sono momenti in cui il dibattito pubblico sulle parole nasconde un problema di contenuti che si fa fatica a fare emergere e ad affrontare con serietà. In questi giorni abbiamo almeno tre esempi diversi, che dovrebbero costringerci a riflettere e non solo farci “prendere posizione”. Due di questi riguardano casa nostra: la parola “razza”, secondo alcuni da abolire anche nella nostra Costituzione; e l’attribuzione del termine “terrorismo” alla violenta azione di Macerata di un neofascista-leghista contro inermi cittadini di colore.