La settimana scorsa è stata segnata dallo stridente contrasto tra due fenomeni. Da un lato, il governo ha rivisto al ribasso le stime sull’andamento dell’economia. Dunque, specie per la parte più debole delle famiglie italiane, i sacrifici non sono affatto finiti. D’altro lato, abbiamo assistito alla tragica farsa dell’appropriazione e dello spreco del denaro pubblico per fini privati nella regione Lazio, con contorno di festini, maiali e ancelle. È solo l’ultima manifestazione di un fenomeno così diffuso e radicato da porre l’Italia nelle classifiche della corruzione politica ai primi posti tra i Paesi più sviluppati.
Perché l’Italia detiene questo triste primato? Pretendere di rispondere in poche battute sarebbe inutilmente presuntuoso. Concentriamoci solo su un punto. Le cure che sono state proposte nell’ultimo ventennio per la malattia della nostra politica sono state efficaci? O di fronte all’evidente peggioramento del male non sarebbe forse il momento di pensare a medicine diverse?
Le ricette prevalenti sono maturate di fronte al tracollo della “partitocrazia” della Prima Repubblica e sono state molto plasmate da quella esperienza, nel senso di basarsi su una forte sfiducia verso il ruolo dei partiti nella politica. La domanda era: come superare il degrado dei vecchi partiti? Nella sostanza, la risposta si è basata su due ricette tra loro legate: incoraggiare il bipolarismo e l’alternanza tra coalizioni; favorire l’apertura dei vecchi partiti a soggetti nuovi, scelti direttamente dagli elettori. Alternanza e apertura possono certo fare bene, ma come per tutte le medicine bisogna chiedersi se la loro applicazione a un determinato organismo non generi effetti collaterali che peggiorano le condizioni del paziente.