Tutto è cominciato così, secondo una delle adolescenti finite nello scandalo delle “baby prostitute dei Parioli”: da una ricerca su Google con la parola chiave “come guadagnare soldi”. È nella banalità di questa frase detta da una ragazzina al procuratore per giustificare la propria scelta, perché di scelta e non di costrizione si tratta, che troviamo la cifra di un fenomeno che va ben oltre il tema della prostituzione giovanile e del reato che commettono i clienti di prostitute minorenni.
Ciò che è scioccante sul piano sociale e culturale, non è tanto la prostituzione giovanile in sé, fenomeno conosciuto e ampiamente studiato, ma il mix di razionalità, efficienza, cinismo che emerge sia dall’interrogatorio della ragazza più "grande" (15 anni) al Palazzo di Giustizia, che dalle conversazioni e dagli sms scambiati con i clienti. Non vi è l’ombra di un qualche senso di ripugnanza nel dover compiere atti sessuali con uomini adulti, che potrebbero essere i loro padri o nonni, né senso di colpa o di vergogna nell’ammetterlo esplicitamente, ma l’idea di fare qualcosa di normale, come i lavoretti estivi che molti studenti fanno per pagarsi le vacanze.
Si coglie addirittura nei colloqui riportati su molti quotidiani nei giorni scorsi, la precisa e quasi orgogliosa rivendicazione che la loro è stata una scelta, che non sono vittime di qualche losco individuo, che sapevano quel che facevano. Niente a che fare col solito vittimismo con cui si presentano e in genere vengono presentate le giovani (spesso immigrate) finite nel giro della prostituzione.
La normalità del vendere il proprio corpo per denaro a 15 anni, dopo la scuola, non si discosta molto da altri casi che hanno trovato spazio nella cronaca di questi giorni. Mi riferisco, ad esempio, al caso riportato dal direttore del reparto di pediatria dell’ospedale Fatebenefratelli delle “ragazze doccia”