Dopo la Seconda guerra mondiale i sistemi democratici dell’Occidente, governando lo sviluppo capitalista anche al fine di distribuirne i benefici alle classi lavoratrici, hanno creato le società più prospere, colte e libere che mai si siano avute in tutta la storia umana. È stato il trionfo della «democrazia liberale», non solo nel mondo anglosassone dove era nata, ma pure (e forse ancora di più) in buona parte dell’Europa continentale: qui è dove essa più compiutamente ha dimostrato di potere evolvere verso un assetto social-democratico che, oltre alla crescita economica e accanto ai diritti civili, si prefigge di garantire, con ambizione universalista, anche i diritti sociali.
Assieme allo sviluppo economico, il «capitalismo democratico» ha consentito la riduzione delle disuguaglianze e una mobilità sociale dal basso verso l’alto senza precedenti. Un processo simile, epocale, non è stato il risultato dello spontaneo operare del mercato, tantomeno della bontà di quelli che una volta si chiamavano «padroni»: ma l’esito delle lotte delle classi lavoratrici per la giustizia sociale, e dell’azione politica riformista delle forze che le rappresentavano, perlopiù sotto l’ombrello del «socialismo democratico», le quali hanno saputo volgere a vantaggio di coloro che mai avevano avuto voce le istituzioni del liberalismo e lo Stato nazione[1].
Oggi, nel tempo in cui per l’ennesima volta c’è chi annuncia che «il socialismo è morto», anche il liberalismo non si sente tanto bene. Poco dopo la celebre profezia di Francis Fukuyama sulla «fine della storia»[2], come per un’astuzia imprevista, le cose nel mondo hanno preso a girare ancor più vorticosamente e negli ultimi anni l’espansione delle democrazie liberali non solo si è arrestata, ma ha subito arretramenti e involuzioni.