L’ordine del caos: così si potrebbe definire il senso dei primi 70 giorni e oltre della presidenza Trump. Il caos di una strategia politica e comunicativa che ha fatto saltare ogni tipo di intermediazione, regola, fair play, ma anche il caos di un’amministrazione che non riesce a trovare una forma di coordinamento e una coerenza organizzativa interna. L’approccio diretto al presidente-capo che crede solo nel contatto diretto e nel processo di fidelizzazione sta scompaginando la complessa struttura amministrativa dell’ufficio di presidenza che, nel corso dei decenni, vale a dire da quando fu creato nel 1939, ha sedimentato prassi e procedure. Non che non vi sia mai stato un modello unico; alle dirette dipendenze del presidente, l’ufficio viene organizzato a seconda delle sue preferenze: in modo piramidale, con il chief of staff che, in virtù dell’accesso diretto al presidente, si muove sulla base di regole gerarchiche a cui tutti devono sottostare; oppure, al contrario, secondo modelli più orizzontali che vedono il chief of staff come coordinatore. Con l’amministrazione Trump non c’è né l’uno né l’altro, come dimostra il ruolo tutto sommato secondario, se non marginale, rivestito da quello attuale, l’ex chairman del Republican National Committee, Reince Priebus. Il quale non riesce a controllare l’agenda del presidente, come pure invece sarebbe suo compito fare, sovrastato dalle special relationships di Trump con Steve Bannon, con la figlia Ivanka e il genero Jared Kushner.
Il caos di scelte politiche di un’amministrazione che sta provando sulla propria pelle cosa significa il passaggio dalla roboante retorica populista usata in campagna elettorale e il tran tran di una politica che deve fare i conti con le esigenze di gruppi sociali, lobbies, movimenti di opinione, contrappesi istituzionali, dinamiche interne a un partito, come quello repubblicano, scisso fra l’esigenza di assecondare l’agenda del presidente e la necessità di non perdere di vista il proprio elettorato. Le polemiche di queste prime settimane – dal cosiddetto Muslim ban (prima sbandierato come esempio luminoso di un presidente che mantiene le promesse, poi ritirato per evidente incostituzionalità e infine ripresentato in forma più annacquata) al fallimento del piano che avrebbe dovuto smantellare l’Obamacare, passando per la bomba ad orologeria dei rapporti con la Russia di Putin – sono una prova del fatto che la politica non può fermarsi ai tweet che solleticano la pancia di quegli elettori che continuano a dare fiducia all’ex tycoon.