Quello che è sfuggito alla maggior parte dei commentatori che in questi giorni sono intervenuti sugli scontri in valle di Susa è che la Tav di cui oggi si parla è una cosa molto diversa dalla Tav contro cui la valle insorse nel 2005. Allora si trattava di un’opera imposta senza alcun confronto con i territori interessati, oggi invece siamo di fronte a un progetto che è stato ridiscusso punto per punto per ben cinque anni tra tecnici di fiducia di tutte le parti coinvolte compresi i sindaci della valle.
Nel primo numero del 2006, questa rivista dedicò una intera sezione monografica a un tema cruciale. La intitolammo "Ideologia e prassi delle grandi opere".
Risulta davvero sorprendente rileggere quegli articoli a sei anni di distanza: non solo per la bravura degli autori, che seppero individuare le questioni cruciali mentre era in atto un dibattito molto acceso sulla Tav in val di Susa, ma anche per l'assoluta immobilità italiana che l'attualità di quegli articoli riletti oggi mette in chiara evidenza.
Le discussioni di questi giorni sul ventennale di Mani pulite, e sulle sue reali conseguenze nella politica e nella società italiana, si sono spesso risolte nelle consuete sterili polemiche di partito e di fazione, e solo raramente hanno contribuito ad avviare una riflessione seria sul significato storico di quella operazione e sulle ragioni del suo sostanziale fallimento.
Gli economisti non sono dottori, ricordava la scorsa settimana "The Economist". Pur se possono fare la diagnosi (sperabilmente corretta) di una malattia e indicare le cure, non possono tuttavia attendersi che queste saranno seguite dal malato.
Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano ha formalmente chiesto al sindaco Pisapia di voler accordare agli avvocati milanesi l’esenzione del pagamento della tariffa di accesso all’Area C, estendendo loro la deroga già riconosciuta ai “giornalisti e ai poligrafici dipendenti di gruppi editoriali con sede operativa” in centro.