La riunione del Consiglio europeo del 23 aprile ha suscitato aspettative diffuse e commisurate alla straordinarietà della crisi che stiamo vivendo.
Non c’è più alcun dubbio, questi giorni ce li ricorderemo per molto tempo. I rapporti sociali, i processi economici, le relazioni tra Stati che conoscevamo non ci saranno più. Non c’è commentatore politico che non ripeta come una cantilena che quello che stiamo attraversando è il momento più difficile (per ora, aggiungo io) dopo la Seconda guerra mondiale.
Ci voleva il Coronavirus per far vedere alla luce del sole, per chi non se ne era già accorto prima, l’inconsistenza di un’Unione europea fatta di Stati sovrani e retta da accordi tra governi nazionali?
Da quando si registrò la prima crisi fiscale comunitaria sono trascorsi quarant’anni e il Trattato di Lisbona ha mantenuto il principio secondo cui il bilancio
È vero, tedeschi, olandesi, austriaci e altri consoci non si sono mostrati granché amichevoli nei nostri confronti. Ma, prima di risvegliare i consueti pregiudizi antigermanici e d’intonare geremiadi sulla fine dell’Europa, è il caso di ragionarci.