Fino a qualche mese fa, la Serbia viveva lontana dalla questione rifugiati. Sostanzialmente era un problema percepito come distante, che gravava su altre parti d’Europa: le persone in fuga dalla guerra erano un’immagine vista in tv, identificata con i barconi strapieni che attraversavano il Mediterraneo.
Bulgaria sud-orientale, confine con la Turchia. Due linee di filo spinato si dipanano lungo le alture boscose, correndo parallele verso l’orizzonte. Una è arrugginita e dismessa: eco lontana della cortina di ferro, il suo scopo era impedire – anche a costo della vita – la fuga dal blocco sovietico.
Un milione e mezzo di persone, più dell’intera popolazione di Milano. È questa la dimensione dell’emergenza degli sfollati della guerra in Ucraina. Una crisi che non lambisce le nostre coste, non minaccia i nostri confini ma non per questo richiede meno attenzione da parte dei Paesi occidentali.
Vent’anni fa, a Dayton, i negoziatori americani avevano due obiettivi: mettere fine alla guerra in Bosnia Erzegovina e porre le basi di uno Stato funzionale. Il primo obiettivo è riuscito, il secondo no. Il fallimento della Bosnia di Dayton, in quanto progetto politico, è alla base della costruzione dei muri invisibili che oggi dividono il Paese.
Alla fine a Bruxelles ieri è accaduto quello che molti temevano. L’Europa ha mostrato al mondo la totale assenza di una seppur minima linea politica unitaria da parte delle istituzioni che la governano. Le divisioni tra i diversi Paesi appaiono così sempre più dettate da interessi ed egoismi nazionali, che di volta in volta vengono spacciati sotto le categorie della sicurezza, dell’emergenza sanitaria, delle radici cristiane. Gli stop and go sulle possibili linee di intervento per gestire la situazione