Il 22 aprile sulla home page del quotidiano «la Repubblica» è stato pubblicato un articolo dal titolo evocativo: Inchiesta sull’università malata e sulla strage silenziosa del merito. L’articolo è stato poi rilanciato nell’edizione cartacea domenicale del giornale. Ne emerge una rappresentazione dei professori ordinari italiani (i cosiddetti baroni) davvero desolante. L’inizio dell’articolo svela immediatamente il tenore complessivo della denuncia.
«Vaffanculo barone. Con questo titolo fulminante, il 4 marzo scorso, viene condiviso sui social network un lungo articolo (dal più morbido titolo On the barone) apparso sulla prestigiosa "London Review of books", firmato da John Foot, storico e saggista britannico specializzato in storia italiana. È un amaro epitaffio della nostra università. Che ha il pregio di riassumere il senso e le ragioni con cui, da oltre mezzo secolo, decine di migliaia di giovani ricercatori prendono congedo dal nostro Paese. Siamo partiti dunque da quel vaffanculo per tornare a dare, ancora una volta, un nome, dei numeri, dei luoghi alla più intollerabile e silenziosa strage di intelligenza, speranza, merito che, ostinatamente refrattaria a inchieste della magistratura e sentenze di tribunali amministrativi, continua a selezionare in peggio la nostra classe dirigente e ci priva ogni giorno del nostro futuro».
L’articolo mette insieme cose molto diverse, riconducibili a tre differenti tipi di vicende giudiziarie: i) I casi di mala-università connessi ai concorsi truccati per favorire alcuni candidati a discapito di altri, che creano tanta indignazione all’interno degli stessi ambienti universitari, anche tra i professori ordinari, e che naturalmente è bene che vengano indagati dalla magistratura. ii) I casi di parentopoli che hanno posto sotto i riflettori alcune sedi universitarie (ma sui quali sono già stati inseriti correttivi normativi). iii) L’aumento dei ricorsi alla magistratura che si è verificato negli ultimi anni a seguito dell’introduzione dell’Abilitazione scientifica nazionale, che indica un fenomeno del tutto diverso rispetto ai precedenti. Come già nel 2013 aveva argomentato Sabino Cassese, proprio dalle pagine di questa rivista, era prevedibile che un sistema di valutazione congegnato in modo così complicato avrebbe prodotto un aumento dei ricorsi.
Se, tuttavia, si vuole passare dal piano della mera denuncia a quello della comprensione, bisogna entrare dentro i meccanismi di funzionamento dell’università e delle procedure che ne regolano l’accesso e le progressioni di carriera. Paradossalmente, proprio questi meccanismi non vengono presi in considerazione da coloro che periodicamente denunciano lo strapotere dei baroni universitari. Per tornare all’articolo da cui siamo partiti, ad esempio, non sembra essere chiaro che quanto più la selezione per l’abilitazione diventa strict e rigorosa (resistendo alla tentazione di fare todos caballeros), tanto più aumenta la schiera di coloro che – a torto o a ragione – si sentono oggetto di un’ingiustizia nella valutazione dei titoli e delle pubblicazioni. Forse sfugge che quel sistema di abilitazioni, basato sulle famigerate mediane bibliometriche, per quanto imperfetto e necessario di revisioni, ha favorito proprio una profonda revisione del sistema di reclutamento baronale, producendo una sorta di empowerment dei giovani ricercatori. Per ottenere l’abilitazione più che portare le borse agli ordinari, ora si deve pubblicare (a volte anche troppo) su riviste di prestigio internazionale.
Sfugge poi che il reclutamento, prevalentemente locale degli atenei italiani, dipende poco dai baroni ma piuttosto da un sistema di finanziamenti che non favorisce, anzi ostacola, la selezione degli esterni. Un punto che sarebbe agevole affrontare, senza troppi drammi, modificando le regole e gli incentivi.
Se si guarda dentro l’università, se si mettono a fuoco regole e pratiche concrete di funzionamento e di comportamento, la realtà appare molto diversa da come viene descritta nell’articolo de «la Repubblica». Il quadro appare ben lontano da quello denunciato; da quel «sistema» di baroni che fa strage della meritocrazia e seleziona «una classe dirigente» di mediocri portaborse.
Il quadro appare ben lontano da quello denunciato; da quel "sistema" di baroni che fa strage della meritocrazia e seleziona "una classe dirigente" di mediocri portaborse
D’altra parte, l’articolo di John Foot pare una cartolina scritta dal solito viaggiatore inglese… ma arrivata con trent’anni di ritardo. Descrive un’altra università rispetto a quella che noi conosciamo. Offre un resoconto del tutto inconsapevole del fatto che negli ultimi vent’anni le università italiane hanno vissuto riforme di tutti i generi e che i docenti sono soggetti a continue valutazioni (non solo dalle Agenzie nazionali, ma anche dagli stessi studenti).
L’inchiesta in questione è un classico esempio di «fallacia della rappresentatività», un errore argomentativo che si compie quando si propone, in maniera scorretta, una generalizzazione a partire da un campione poco rappresentativo. Una vera e propria operazione distorsiva, come se si volesse descrivere la società italiana, nel suo complesso, a partire dagli stralci di verbali di una qualsiasi inchiesta giudiziaria. Tutti siamo favorevoli al fatto che i fenomeni di malcostume che coinvolgono accademici vengano denunciati e perseguiti dalla magistratura, ma possibile riassumere l’università italiana di oggi così superficialmente, come avviene nell’articolo, a partire da un aneddoto del 1955 del giovane Modigliani?
«Un "barone", in occasione di un convegno di economisti a Washington, a un certo punto tirò fuori l’orologio dal taschino e mi chiese: "Senta, ieri mi si è rotto l’orologio, me lo potrebbe far accomodare per cortesia, e poi me lo fa recapitare in albergo?". Il giovane Modigliani gli rispose che la richiesta avrebbe dovuta farla al garzone della portineria dell’albergo. L’allievo-assistente, fatto di una pasta differente, scrive e commenta: "Questa è una delle origini profonde della crisi italiana. Perché una classe universitaria e una classe dirigente che è stata selezionata in base alla sua capacità di subire umiliazioni, di non avere amor proprio, è quella che non è in grado di guidare l’Italia". Sono passati 65 anni da quel lontano 1955. Ma l’Italia ha ancora i suoi baroni, e i suoi garzoni. E la classe dirigente di domani continua ad essere misurata sulla capacità di subire umiliazioni o stringere il patto con Faust e il suo "Sistema". Sono un esercito di laureandi e post-laureati precari e disperati».
È troppo pretendere che i «mali dell’università» vengano affrontati con argomentazioni evidence-based piuttosto che con uno stile populista-scandalista che riassume sempre tutto nell’invettiva moraleggiante contro i cattivi e la casta di turno? Stavolta i baroni universitari, domani chissà. Fatte queste precisazioni, riteniamo che molte delle questioni affrontate nell’articolo richiedano una riflessione seria e interventi di correzione. Proprio per questa ragione, e per avviare un’analisi approfondita di alcune delle criticità messe in luce dall’inchiesta de «la Repubblica», come direttori del «Centro Luigi Bobbio per la ricerca sociale pubblica e applicata» dell’università di Torino, intendiamo organizzare un convegno il prossimo autunno, al quale fin d’ora invitiamo a partecipare il ministro e la Crui. E, se lo vorranno, i giornalisti de «la Repubblica».
Ciò premesso, va però anche aggiunto che molti dati di pubblico dominio restituiscono un’immagine ben diversa dell’università. Ad esempio, una recente inchiesta condotta a partire dai ranking Qs e The sulle 1.000 migliori università a livello mondiale, mostra che vi rientrano il 40% di quelle italiane. Un dato, quest’ultimo, che colloca il nostro Paese davanti a Cina, Francia e Usa. Anche se – come ben illustra un recentissimo rapporto della Crui sui ranking internazionali – non mancano delle criticità. Sul fronte della produzione scientifica, poi, i report forniti dalla banca dati di Scopus mostrano che l’Italia si colloca al 7° posto mondiale per numero di pubblicazioni scientifiche e all’8° per numero di citazioni. L’ultimo rapporto Anvur disponibile (2018) sul posizionamento internazionale della ricerca italiana evidenzia che la crescita della produzione scientifica italiana è stata nell’ultimo decennio superiore alla media mondiale, e ciò ha consentito al nostro Paese di aumentare la propria quota sul totale, mentre gli altri Paesi europei più importanti (Francia, Germania e Regno Unito) la riducevano. Questi e altri dati indicano che la posizione della ricerca italiana nel complesso è oggi migliore rispetto a quella di grandi Paesi come Francia e Germania e superiore rispetto a quella degli Stati Uniti. Possibile che queste prestazioni siano il prodotto di una casta di baroni e di una schiera di portaborse? Basterebbe guardare la stragrande maggioranza dei Cv dei «giovani» ricercatori che vincono i concorsi nei nostri atenei per rendersi conto della loro qualità scientifica. In fondo, questi attacchi «nel mucchio» sono infamanti tanto per i professori ordinari quanto per questi giovani (o presunti tali) vincitori di concorso, per lo più brillanti e con importanti esperienze internazionali alle spalle
Questi attacchi "nel mucchio" sono infamanti tanto per i professori ordinari quanto per questi giovani (o presunti tali) vincitori di concorso, per lo più brillanti e con importanti esperienze internazionali alle spalle
Questi dati sono ancora più sorprendenti se considerati alla luce dell’impegno didattico dei professori universitari italiani (il rapporto studenti/docenti in Italia è tra i più alti in Europa) e degli scarsi investimenti fatti nel nostro Paese sulla formazione terziaria. L’Italia si colloca al terz’ultimo posto nella graduatoria dei Paesi Ocse per il finanziamento delle università, spendendo appena lo 0,9% del Pil contro una media dell’1,4%. Questa esiguità di risorse è il vero scandalo su cui si dovrebbe attirare l’attenzione e battere la grancassa; e getta luce anche sull’elevato grado di conflittualità presente nelle nostre università, dove la competizione per i pochi posti disponibili scatena sempre tensioni molto forti.
Non è una chiusura corporativa a ispirare queste parole, ma piuttosto una forte preoccupazione per la difesa e la tutela di un bene pubblico quale il sistema della ricerca e della formazione universitaria. Anzi, vogliamo prendere sul serio l’articolo de «la Repubblica» e discuterlo, e ci aspettiamo che non sia accolto da silenzio e indifferenza dallo stesso mondo universitario. È troppo aspettarsi che il ministro dell’Università e gli altri organi di governo reagiscano per contrastare – con buoni argomenti – rappresentazioni così deformanti e caricaturali della nostra università? Siamo preoccupati per la qualità del nostro dibattito pubblico. Poiché riteniamo che affrontare i problemi in questo modo abbia prodotto, negli anni, una cultura politica «tossica» nel nostro Paese. Che piuttosto che aiutare a risolvere i problemi li alimenta, delegittimando a priori il sistema… Non quello dei baroni ma quello dell’università nel suo insieme che, al contrario, specie in questa fase, dovrebbe essere considerata una risorsa strategica per la ripartenza del nostro Paese.
Alla luce dei dati che abbiamo mostrato in precedenza, per chi lavora con serietà e passione nei nostri atenei la lettura dell’articolo lascia sbalorditi e provoca profonda amarezza. Specialmente perché avviene all’indomani degli sforzi che tutti i docenti universitari hanno fatto durante la pandemia per assicurare la continuità didattica. Le indagini svolte dal «Centro di ricerca Luigi Bobbio» sull’esperienza della didattica a distanza mostrano i risultati positivi raggiunti da questi sforzi. Non hanno salvato vite, ma hanno garantito la continuità di un servizio di pubblica utilità di fondamentale importanza.
Conforta, infine, rilevare che la reputazione dei professori universitari presso l’opinione pubblica non è così compromessa come sembra indicare l’inchiesta de «la Repubblica». Almeno a giudicare dai dati di un’indagine pubblicata nel 2019 dallo stesso quotidiano sul «prestigio delle professioni». In una scala da 1 a 10, ben il 66% degli italiani attribuivano ai docenti universitari un voto superiore a 8, collocandoli al secondo posto della graduatoria, subito dopo i medici. I giornalisti, al contrario, si collocavano nelle ultime posizioni, poco sopra i politici, con appena il 47% dei consensi. Sono dati che fanno riflettere e che non rendono giustizia della professionalità e della dedizione con cui molti giornalisti fanno il loro mestiere. Non fa bene al nostro Paese una reputazione così bassa, poiché la solidità di una democrazia si regge sulla qualità del suo dibattito pubblico. E la libertà e l’autorevolezza del giornalismo ne sono una componente essenziale. Anche quando producono inchieste, per noi poco condivisibili, come questa. Ma che abbiamo preso sul serio.
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