Il breve ma significativo viaggio di Barack Hussein Obama ha raccolto opinioni e giudizi articolati. I giornali in lingua araba hanno ripetutamente messo in rilievo il nome Hussein, a titolo di patronimico, che nell’idioma locale indica «di bell’aspetto e di buone maniere». Nel discorso tenuto all’Università Al-Azhar, fucina di studiosi ma anche di imam, autorità fondamentali nella costruzione (e nel mantenimento) del consenso nelle terre sunnite, Obama non ha parlato solo all’Islam, inteso come un interlocutore unitario, e solo come tale credibile, di contro alle spinte centrifughe e ai sogni egemonici di alcune delle sue componenti sciite, ma anche dell’Islam che sta in noi, ovvero dell’Oriente che pervade l’Occidente.

Poiché è a partire da ciò che si può realizzare l’auspicato «new beginning», un nuovo inizio che non pacificherà tutto ma costruirà un nuovo terreno di mediazione. Discorso visionario e di meri principi, si è obiettato. Ma il Presidente americano, per il momento, più di tanto non avrebbe potuto fare, rischiando altrimenti di posizionarsi senza neanche avere una chiara politica da perseguire. Piuttosto, un discorso di intenzioni. Il percorso del viaggio, a tale riguardo, era stato studiato attentamente. Le tappe messe in agenda non erano casuali, volendo avviare una lunga e complessa operazione, intesa a realizzare una vera e propria ricucitura rispetto agli «strappi» operati dalla precedente Amministrazione, quella di George W. Bush.
In testa la nuova Presidenza ha tre aree di crisi: il conflitto israelo-palestinese, con la sua valenza simbolica e ideologica; l’area del Golfo persico, strategica per la produzione e il transito degli idrocarburi; la zona conosciuta come «AfPak», soprattutto il Pakistan minacciato dalla tracotanza talebana. A queste si somma il problema, sempre più pressante, del nucleare iraniano (di riflesso, degli intendimenti della Corea del Nord), che sta angosciando non solo Israele ma anche i paesi dell’area mediorientale che guardano con apprensione alla lievitazione delle aspirazioni egemoniche di Ahmadinejad. L’intenzione di fondo, sancita dal discorso cairota, era però quella di garantire agli Stati Uniti un ruolo di arbitro nella partita mediorientale dalla quale, in prospettiva, rischiano altrimenti di essere scalzati. Per dare fiato a questo «work in progress», proiettato verso il futuro, Obama aveva quindi attentamente scansionato con il suo staff le diverse tappe.
Se si fa attenzione al succedersi dei luoghi si noterà come essi abbiano composto una sorta di cerchio politico: presenza in due paesi fondamentali all’interno della strategia americana di sempre, l’Arabia Saudita, vigilante sugli equilibri nella penisola arabica (ma non solo), e l’Egitto di Mubarak, garante degli accordi di pace firmati a Camp David alla fine degli anni Settanta. Poi una veloce corsa in Europa, per quella parte di Germania che più ricorda le ferite della guerra, inferte (la visita a Buchenwald, con una cerimonia sobria e toccante) e subite (la distruzione della città di Dresda). Infine, passaggio per le spiagge dello sbarco delle truppe anglo-americane, quelle del 6 giugno 1944. Così facendo Obama ha voluto celebrare la presenza americana in Europa, come in Medioriente, ponendo in chiaro che essa data a molto tempo fa (la fine del colonialismo franco-britannico) e non può essere messa in discussione troppo facilmente. A questo segnale, rivolto anche alla Russia, ha voluto legare le parole d’apertura verso l’Islam sunnita. Parole calcolate: nessuna menzione del «terrorismo», per intenderci. Per rafforzare il concetto si è soffermato sulle sofferenze «intollerabili» dei palestinesi e la richiesta, rivolta ad Israele, di congelare gli insediamenti in Cisgiordania oltre che l’accettazione della prospettiva della costituzione di un «Stato palestinese». Al mondo musulmano ha chiesto di riconoscere la centralità della sofferenza ebraica, quella dell’«Olocausto», che costituisce, nell’universo simbolico obamiano, un fattore dirimente nella legittimazione d’Israele. Gerusalemme ha così dovuto iniziare a prendere le misure sul mutamento di rotta che gli Stati Uniti stanno imponendo alla loro politica. Le reazioni formali del governo Netanyahu sono state improntate ad una fredda cortesia ma non sono riuscite a nascondere che le attese di Washington – una qualche significativa decisione, di qui a luglio, nel merito degli insediamenti – sono insostenibili poiché minano la tenuta stessa della coalizione di centro-destra. E questo nel mentre sia l’Anp che Hamas, hanno enfatizzato gli elementi di «discontinuità» con Bush. L’opzione statunitense è chiara: la discriminate non è più la natura islamista degli interlocutori bensì il loro effettivo radicamento territoriale, sancito dal consenso popolare, o la loro vocazione al globalismo qaedista. Il timore di Israele è quello di divenire marginale nell’agenda americana, e sulle risposte da dare si giocheranno i futuri interni al governo come all’opposizione laburista e di Kadima. Non è allora un caso se il ministro degli esteri Lieberman sia stato recentemente a Mosca, interloquendo con successo insieme a Putin.


[Sulla nuova Amministrazione americana e il rapporto con l'Islam, si segnala in uscita sul prossimo numero del "Mulino" l'articolo di Augusto Valeriani, Obama e il mondo arabo, pp.434-441].