Molti degli studenti che s’iscrivono alle facoltà umanistiche hanno serie difficoltà a esprimersi oralmente e per iscritto. Avere serie difficoltà significa: sbagliare i verbi, sbagliare l’ortografia, usare le parole a casaccio. È un po’ come se alla facoltà di Matematica si iscrivessero in massa ragazzi che non sanno fare le quattro operazioni, o come se le aule di Medicina fossero invase da studenti che hanno il terrore del sangue.

A diciannove anni è tardi per imparare a contare, dunque è improbabile che chi è a disagio coi numeri s’iscriva a Matematica. E la stessa cosa vale, immagino, per il sangue e per la Medicina. Ma le facoltà umanistiche sono un’altra cosa, perché nelle aule di Lettere o di Sociologia si parla di romanzi, poesie, quadri, sinfonie, storia antica, filosofia, archeologia, e a questo Bengodi uno può appassionarsi anche senza avere alcuna competenza o vocazione; ché anzi la passione – la passione cieca e inconcludente, la mania – prospera proprio là dove la competenza scarseggia. 

D’altra parte, studiare male, cavarsela con la storia antica, con la filologia romanza, con la storia del cinema, è più facile che cavarsela con l’algebra o con l’anatomia. Nei film comici, le scene a scuola o all’università sono sempre scene di esami in materie come Letteratura o Semiotica: la scienza fa meno ridere perché si presta meno alla cialtroneria. Perciò, come è noto, tanti ragazzi s’iscrivono alle facoltà umanistiche anche perché non sanno che altro fare, e perché pensano che le facoltà umanistiche siano le più facili. E di solito hanno ragione.

Ci sono infine studenti che s’iscrivono alle facoltà umanistiche perché, oltre ad avere un ragionato interesse per cose come il latino, il Medioevo, la storia contemporanea o Max Weber, sono anche tagliati per fare studi del genere: e posseggono cioè le competenze di base e le attitudini che consentono loro di seguire con profitto una lezione universitaria su questi temi. 

Le facoltà umanistiche, per come sono concepite adesso e per come funzionano, non possono andare avanti. La società italiana non ha alcun bisogno di avere migliaia e migliaia di mediocri laureati in filosofia, sociologia o storia dell’arte: ha bisogno di averne pochi, ma ottimi. Gli studenti non devono continuare a illudersi che, dopo 5 o 7 o 9 anni di studi svogliati e dispersivi, usciranno con una laurea che permetterà loro di fare i giornalisti o i professori universitari o gli "scienziati della comunicazione", perché non sarà così. Molti finiranno disoccupati a vita; molti cominceranno a fare a trentacinque anni un lavoro che avrebbero dovuto cominciare a fare a venticinque: dieci anni sprecati. E i docenti non meritano di dover avallare questo raggiro ai danni della società e degli studenti.

 L’Italia non ha bisogno di molti laureati in discipline umanistiche. Ha bisogno di una buona cultura diffusa, ma questo è tutt’altro discorso: e l’aiuto che le facoltà umanistiche possono dare in questo senso consiste soprattutto nel formare insegnanti eccellenti e intellettuali dotati di senso critico, non nel laureare in Lettere l’intera nazione. Questo non è "portare la cultura al popolo", è prenderlo in giro. L’idea che tutti debbano avere libero accesso alle meraviglie dell’umanesimo è figlia di un equivoco: si parla di quello che è un lavoro nei termini in cui si potrebbe parlare di una passione disinteressata, di una libera attività dello spirito, confondendo due piani che devono invece restare distinti: quello della piena realizzazione del sé (che non compete all’università) e quello della professione che attraverso lo studio universitario si viene abilitati a intraprendere. 

Come prima cosa, bisogna far sì che gli studenti del primo tipo (passione senza la minima preparazione) e del secondo tipo (pigrizia e faciloneria) non si iscrivano alle facoltà umanistiche: proprio come non s’iscrivono alle facoltà scientifiche. Per fare questo esistono due strade: rendere le facoltà umanistiche molto difficili, bocciando la stragrande maggioranza dei candidati agli esami, già dal primo anno. Oppure istituire un test d’ingresso che respinga chi non ha né le attitudini né le competenze di base sufficienti a specializzarsi in una disciplina umanistica.

Chi conosce un po’ la vita universitaria sa che la prima via non è percorribile per parecchie ragioni: perché le facoltà difficilmente potranno decidere di suicidarsi respingendo agli esami i nove decimi dei propri iscritti. Perché gli studenti possono vivacchiare per molti anni tra un diciotto, un ventidue e un Erasmus a Barcellona prima di capire – ma quando è tardi – che quella in effetti non era la loro strada. Perché alla quarta volta che uno studente buono, simpatico e ignorante si ripresenta all’esame bisogna avere un cuore di pietra per non dargli almeno diciotto: sperando che non finisca a insegnare nella classe di vostro figlio.

Resta il test d’ingresso. Poteva essere una cosa odiosa quando la laurea in Lettere voleva dire "accesso alla classe dirigente", ammesso e non concesso che abbia mai voluto dire qualcosa del genere. Comunque, adesso le cose non stanno più così, e chi vuole contingentare il numero degli specialisti di Montale o di Kubrick non lo fa perché mira a frenare l’ascensore sociale. Al contrario. Classista non è il numero chiuso. Classista, e anche insensato e crudele, è un sistema che illude i giovani e li depista negli anni cruciali della loro formazione, finendo così per ratificare proprio quelle differenze di classe che, illudendosi a sua volta, sostiene di voler abbattere.