Rieccola: dall’11 giugno fino all’11 luglio. È la 19a Coppa del Mondo di Calcio 2010, la prima a svolgersi nel continente africano. Mobilita le folle. Si impone come un evento planetario, un esempio tra gli altri dell’intensità della globalizzazione. 73.000 ore di trasmissione televisiva in 214 Paesi che coinvolgeranno più di 3 miliardi di spettatori. Cifre che danno le vertigini. Che procurano la sensazione di una vasta emozione collettiva, di una comunione tra gli uomini e di un culto du ballon rond che prende l’aspetto di una religione pagana e planetaria.

Questa percezione piuttosto diffusa ha qualcosa di illusorio. Il calcio è un fenomeno certamente mondiale, ma è ripartito in modo ineguale nei continenti: l’America del Nord è ancora abbastanza indifferente al suo fascino, come del resto lo sono l’India e, in misura minore, la Cina. Gli spettatori, e i telespettatori, non formano una massa indifferenziata, contrariamente a quanto spesso viene sostenuto da chi segue la competizione e pensa di condividerla con una moltitudine di altri individui sparsi per il mondo. Non tutti guardano le partite allo stesso modo, come diversi studi etnografici hanno dimostrato. E non solo per via delle opposizioni – leggi antagonismi, talvolta violenti – tra sostenitori di squadre che si affrontano sul campo. Ma soprattutto perché gli amanti del calcio non apprezzano all’unisono le stesse fasi di una partita, il gioco delle loro squadre e le prestazioni dei ventidue in campo. Il loro apprezzamento varia in funzione delle origini sociali, del livello di istruzione, della socialità, della generazione, della conoscenza del calcio e, ancora, dei valori propri e di quelli della propria squadra o della propria Nazionale. Nei fatti, ci sono diversi modi di seguire una partita, di entusiasmarsi per le prodezze di questo o quel giocatore, di applaudire le imprese di una squadra, di capire la tattica di gioco elaborata da un allenatore.  

Questa Coppa del Mondo non manca di rilanciare le numerose critiche che le sono state indirizzate. Non sarà tanto un evento sportivo quanto un gigantesco business finanziario, commerciale, pubblicitario e mediatico, che confermerà la penetrazione del capitalismo nello sport. Rappresenterà la versione moderna del panem et circenses, consentendo ai potenti di stordire i popoli con l’oppio del pallone, facendo dimenticare le violazioni delle libertà qui, le politiche di rigore economico là. Sarà una nuova prova della dominazione maschile, in grado di risvegliare i vecchi demoni dei nazionalismi, della xenofobia, del razzismo. Tutto vero.

Ma ciò non scalfisce lo straordinario potere di attrazione di cui il calcio dispone. Che cosa ci affascina del calcio? Né più né meno che la bellezza dello sport. La gloriosa incertezza di quello che, alla fine, non è che un gioco e il piacere di condividere questo momento con altri.