L’immigrazione verso l’Europa è fuori controllo. Dal 2014 al 2016 sono giunte sulle coste meridionali dell’Europa un milione e mezzo di persone, con una media annuale decuplicata rispetto al quinquennio precedente: dai 46 mila del periodo 2008-2013 (con un picco di 70 mila arrivi nel 2011) si è passati ai 500 mila annui dal 2014 al 2016 (un milione nel solo 2015).

All’origine di questa crisi – legata alla modalità irregolare degli ingressi ancor più che ai numeri assoluti – vi sono cause strutturali e cause contingenti. Strutturali sono i seguenti tre fattori: il divario economico tra Paesi europei e Paesi africani o mediorientali (un divario storico drammaticamente aumentato negli ultimi cinquant'anni); l’accresciuta consapevolezza di quel divario, dovuta alla diffusione capillare di Internet anche nelle aree meno sviluppate; la notevole riduzione dei costi dei trasporti, che ha reso realistica la prospettiva dell’emigrazione per i ceti medio-elevati dei Paesi in via di sviluppo.

Contingenti – e determinanti per spiegare il repentino incremento dei flussi – sono, invece, le cause politiche: le «primavere arabe», l’inasprirsi del conflitto siriano, il dilagare dell’Isis e il fallimento del processo di stabilizzazione in Libia. Questi fattori di instabilità hanno accresciuto la propensione all’emigrazione: i conflitti hanno reso ancor più precarie le condizioni di vita in aree già povere, mettendo in fuga milioni di persone. E hanno altresì prodotto uno «sfaldamento» delle istituzioni in Paesi chiave, privando i governi europei della possibilità di interloquire con controparti stabili, dal dubbio pedigree democratico ma comunque in grado di contenere le partenze irregolari.

La crisi nasce da questo: il venire meno del controllo by proxy esercitato, sia pure in modo lacunoso, dagli Stati che affacciano sul Mediterraneo meridionale e orientale per conto dei Paesi europei. Approfittando di questo vuoto di potere e di controllo di interi territori, le organizzazioni criminali hanno potenziato il traffico di esseri umani, ricavandone elevati guadagni, destinati ad alimentare guerre e terrorismo. Elevatissimi i costi in termini di vite umane: nel triennio della crisi (2014-2016), più di 12 mila persone hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo (3.500 nel 2014, 3.771 nel 2015, 5.022 nel 2016).

Il fallimento del controllo by proxy esaspera l’asimmetria che è già propria del fenomeno migratorio: i Paesi di destinazione devono fronteggiare al loro interno le conseguenze di flussi che sono attivati da cause (push factors) per definizione esterne alla loro giurisdizione e perciò sottratte al loro diretto controllo. La crisi di credibilità dei governi europei deriva da questa asimmetria, che la promessa di soluzioni radicali o anche solo «difensive» paradossalmente accentua. Ciò vale anche per la complessiva politica europea di risposta alla crisi. A marzo 2016, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk aveva preannunciato misure che avrebbero portato alla fine dell’immigrazione irregolare verso l’Europa: «the days of irregular migration to the European Union are over». Nella realtà, il traffico illegale di migranti lungo la rotta del Mediterraneo centrale prosegue e, anzi, si intensifica. Da una parte, l’unico obiettivo sul quale pare possibile trovare una convergenza tra gli Stati membri a Bruxelles è il contenimento dei flussi. Dall’altra, quell’obiettivo è velleitario: una promessa che non può essere mantenuta, perché non è possibile governare la mobilità umana con gli strumenti restrittivi o repressivi a disposizione dei Paesi europei di destinazione.

Ciascuno degli assi portanti della strategia europea non solo pone problemi – talora molto seri – di compatibilità con la tutela dei diritti umani, ma presenta anche evidenti limiti di efficacia. I «controlli alle frontiere esterne» dell’area Schengen, pur irrobustiti dalla creazione della Guardia europea (reg. 1624/2016) e divenuti sistematici lungo le coste italiane e greche, non possono comunque impedire né l’ingresso fisico né la circolazione dei migranti irregolari nell’area Schengen. Gli «accordi con i Paesi terzi» di origine o di transito, pur essendo talora efficaci nel ridurre le partenze (come nel caso dell’accordo Ue-Turchia), sono accordi economicamente onerosi (soprattutto per gli Stati che – come l’Italia – sono non di rado costretti a muoversi in autonomia di fronte alle titubanze dell’Unione), politicamente precari (per la riluttanza e l’instabilità politica delle controparti) e insufficienti ad assicurare un tasso di riammissioni adeguato. Il «rimpatrio forzato degli irregolari» ha anch’esso costi molto elevati – non solo per le casse dello Stato, ma anche per la libertà personale dei migranti – e un grado di efficacia limitatissimo, condizionato da una molteplicità di elementi che trascendono le indubbie carenze della rete italiana dei Cie. La «limitazione della libertà di circolazione dei richiedenti asilo» non solo contraddice la logica di funzionamento dell’area Schengen, ma è altresì priva di un adeguato sistema di enforcement, come dimostra il risibile tasso di effettività dei cosiddetti rimpatri Dublino.

La promessa di contenere i flussi, peraltro, produce ulteriori distorsioni, in quanto allarga la base di consenso dei populismi e dei nazionalismi. L’inefficacia degli strumenti richiamati accentua la frustrazione di quelle fasce della popolazione maggiormente esposte alla concorrenza dei migranti (regolari e irregolari) rispetto a beni sempre più scarsi come il lavoro e le prestazioni sociali. Ciò, a sua volta, si riflette sulle politiche di accoglienza, che godono di scarso consenso anche perché, nella prospettiva dominante, sono concepite secondo una logica meramente assistenziale: non una opportunità foriera (anche) di benefici, bensì un costo netto a carico delle comunità che accolgono. A livello domestico, nonostante gli indubbi passi in avanti sul versante organizzativo e i sempre più generosi incentivi finanziari da parte dello Stato, le resistenze dei territori sono ancora forti, come testimonia la bassa percentuale di adesione dei comuni al Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar). Ancora peggio va a livello europeo, dove lo stato di sofferenza del principio di solidarietà è ben illustrato dalla deficitaria portata e dalla ancor più deficitaria attuazione dei programmi umanitari di relocation (dalla Grecia e dall’Italia) e resettlement (dai Paesi terzi).

L’aumento dell’immigrazione irregolare dall’Africa e dal Medio Oriente produce un’istanza di controllo sempre più diffusa e pressante, alla quale i governi danno risposta privilegiando misure di contenimento la cui efficacia simbolica supera di gran lunga quella reale. Il dibattito europeo sulle politiche dell’immigrazione rimane, così, prigioniero di una spirale «difensiva» che, per un verso, genera costi umani, economici, sociali e politici elevatissimi e, per l’altro, ostacola una gestione ordinata e sostenibile dei flussi, unica realistica via di uscita dalla crisi.