La stagione dei congressi. Mentre i socialisti preparano le primarie che si terranno in maggio, per le quali si sono finora candidati l’ex segretario Pedro Sánchez, l’ex presidente della Comunità autonoma di Euskadi, Patxi López, e alle quali è probabile partecipi anche la presidente del governo andaluso, Susana Díaz, due congressi di partito hanno segnato negli ultimi giorni la vita politica spagnola.

Dal 10 al 12 febbraio si è svolto a Madrid il XVIII congresso del Partito popolare. Essendo praticamente nulle, le aspettative non sono andate deluse. L’unico nodo da sciogliere, sullo statuto del partito, era rappresentato dall’emendamento contro il cumolo delle cariche, implicitamente mirato sulla figura di María Dolores de Cospedal, che allo stesso tempo ricopre la carica di presidente del partito in Castiglia-La Mancha, segretaria generale del partito e ministro della Difesa. Non senza qualche sussulto, l’emendamento è stato respinto per una manciata di voti e il presidente Mariano Rajoy, rieletto con il voto del 95% degli oltre 2.500 delegati, ha potuto confermare Cospedal alla segretaria generale del partito, sia pure riducendone le competenze, parte delle quali assegnate a Fernando Martínez-Maillo nelle vesti di coordinatore generale, oltre che responsabile per l’organizzazione e le competizioni elettorali.

Neppure le pesanti condanne per corruzione emesse alla vigilia del congresso dei principali responsabili del ramo valenziano dello scandalo Gürtel, che ha pesantemente colpito il Pp; neppure le dichiarazioni davanti ai giudici di nove imprenditori valenziani che hanno confessato di aver finanziato illegalmente le ultime campagne elettorali amministrative e politiche del partito nella Comunità valenziana; e neppure l’accusa all’ex vice segretario del partito, ministro dell’Economia e delle Finanze, poi dirigente del Fmi e infine presidente della Cassa di Madrid, Rodrigo Rato, di aver evaso il fisco per 14 milioni di euro dal 2004 al 2015 hanno scosso le placide acque del congresso. Che è filato via liscio come l’olio, per un partito che ha conosciuto una robusta emorragia di voti (oltre tre milioni) rispetto al 2011 nelle elezioni del 20 dicembre 2015 e del 26 giugno 2016 e che ha visto negli ultimi giorni del 2016 il varo del secondo governo del suo leader. Un esecutivo privo di maggioranza, insediatosi grazie all’astensione dei socialisti, che per deciderla hanno dovuto passare per la messa in minoranza del segretario, Pedro Sánchez, poi dimessosi, una sguaiata battaglia interna e il commissariamento del partito, ridotto progressivamente ai minimi termini dalle ultime tre competizioni elettorali.

Mai come nelle ultime elezioni il Pp era apparso come un partito rifugio per quella parte dell’opinione pubblica timorosa del cambiamento, che pur non avendo soverchia fiducia nei popolari e nel loro leader era rassegnata a sostenerlo. Un leader convinto che non decidere sia già una decisione, che per vincere occorre aspettare la sconfitta degli altri, che le riforme vanno sì fatte ma non al ritmo delle urgenze del Paese, ma a quello che decide il partito (parole testuali di Rajoy al congresso) che, non per caso, si è definito qualche giorno prima dell’apertura dell’assise come un «conservatore di destra e di provincia». Invano si cercheranno nei documenti approvati dal congresso un barlume progettuale, ipotesi per la sostenibilità futura dello Stato sociale, una strategia per far fronte all’incalzante domanda di sovranità proveniente da circa la metà della società catalana. Gli argomenti più problematici sono stati rinviati (gravidanza assistita) o risolti con affermazioni di principio che praticamente significano la rinuncia a riformare le leggi varate dai governi di Rodríguez Zapatero sull’interruzione di gravidanza e sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, sulle quali i popolari a suo tempo si erano lanciati in battaglie campali. Unica novità sul fronte delle politiche sociali, l’approvazione di un testo a sostegno dell’affido congiunto dei figli in caso di divorzio dei coniugi.

Rajoy supera così alla guida del partito i pur lunghi mandati di Manuel Fraga e di José Maria Aznar, senza che il congresso abbia posto il tetto dei due mandati alla presidenza del governo, come richiesto al tempo dei negoziati con il Pp per sostenerne il governo da Ciudadanos, avviato a trasformarsi da alternativa centrista, giovanile, moderata e pulita al partito di Rajoy in sua ruota di scorta.

Assai diversa la situazione di Podemos, la cui seconda assemblea dei cittadini (così si chiama il suo congresso) si è tenuta, anch’essa a Madrid, l’11 e 12 febbraio. Alte, in questo caso, le aspettative, per la divisione da tempo latente e venuta a galla negli ultimi mesi tra il leader del partito, Pablo Iglesias, e il numero due Íñigo Errejón, portavoce di Podemos alle Cortes e segretario politico dell’organizzazione. Una divisione diventata lacerazione anche personale, dietro la quale una stampa mai tenera con Podemos, nella quale spicca per acredine «El País», ha voluto vedere una lotta per il potere e una sorta di omologazione all’insegna de «i partiti sono tutti uguali».

Sta di fatto che se la divisione tra la linea movimentista e radicale di Iglesias e quella pragmatica, propensa alla mediazione, al lavoro nelle istituzioni e alle alleanze di Errejón (utile a questo proposito il dossier pubblicato da «il manifesto» il 10 febbraio) può leggersi come inizio di un declino, non vi sono elementi, allo stato, che possono portare a respingere l’idea che si tratti di null’altro che di una crisi di crescita. Crescita di un partito passato, nel volgere di tre anni, da 1,25 milioni di voti (7,9%) alle europee del maggio 2014 agli oltre 5 milioni delle politiche del dicembre 2015 (20,6%) e del giugno 2016 (21,5%), che amministra città come Madrid, Barcellona e svariate altre, che conta su oltre 456 mila simpatizzanti registrati con diritto di voto, che ha visto partecipare all’assemblea dei giorni scorsi circa 9.000 militanti e votare (con voto diretto o telematico) oltre 155.000 iscritti. Ciò premesso, a increspare le acque erano state le dichiarazioni di Iglesias alla vigilia dell’assise. Se la sua linea non avesse ottenuto la maggioranza dei voti e la maggioranza dei 62 componenti nel Consiglio dei cittadini, non avrebbe accettato di continuare a essere segretario, carica per la quale contava anche sul sostegno della corrente di Errejón.

Non è andata così. Iglesias ha ottenuto una straordinaria vittoria su tutti i fronti. È stato confermato alla guida di Podemos con circa 129.000 voti (pari all’89% dei votanti). La sua linea ha ottenuto la maggioranza su tutti i quattro documenti presentati all’assemblea (politico, organizzativo, etico e sull’uguaglianza). Nel Consiglio dei cittadini 37 sono stati i componenti eletti nella sua lista (60%), 23 in quella di Errejón (37%) e 2 nella lista degli anticapitalisti capeggiata dall’eurodeputato Miguel Urbán (3%).

Occorrerà vedere ora come Iglesias interpreterà il messaggio di «unità e umiltà» ribadito più volte nel suo discorso di chiusura all’assemblea. E cioè che ruolo assegnerà a Errejón.

La divisione ha avuto un aspetto scenico nel palazzo di Vistalegre dove si è svolta l’assemblea: Iglesias ed Errejón vi sono entrati separatamente, ciascuno alla testa del proprio gruppo di sostenitori, accolti dal grido scandito dagli astanti di «Unidad-Unidad». Altrettanto scenico, forse per assecondare e rassicurare i militanti, oltre che a beneficio delle telecamere, è stato l’abbraccio dei due antagonisti, che però non si sono guardati negli occhi. E se i mancati sguardi dicono come gli sguardi, difficile è pensare che la rottura sia stata davvero ricomposta.