Together, we rise. Ventiquattro ore dopo il giuramento del 45° presidente degli Stati Uniti, 500.000 manifestanti hanno marciato lungo Pennsylvania Avenue per poi riversarsi lungo il National Mall, riempiendo le strade della capitale più della stessa cerimonia dell’Inauguration Day. Se si considerano le marce sorelle che hanno avuto luogo in altre 500 località del Paese, quella del 21 gennaio, con la partecipazione, secondo stime variabili, di una cifra compresa fra i 3 e 4 milioni di persone, si è configurata come la più ampia protesta politica della storia americana.

L’organizzazione della marcia, la cui adesione è andata ben oltre le attese iniziali, è il frutto di uno sforzo grass-roots, coordinato da un comitato centrale e diffuso attraverso i social media, volto a dare voce a quei gruppi che si sentono minacciati dall’elezione del tycoon newyorchese. La mobilitazione, e la sua portata, sono altresì l’indice, come del resto emerso durante la campagna elettorale, di un’America polarizzata e spaccata, una cui parte non condivide gli accenti scopertamente razzisti, xenofobi e sessisti e i toni violenti del neo eletto presidente Trump.

La manifestazione, pacifica e caleidoscopica, interrazziale e interclassista, era centrata sull’uguaglianza, la giustizia razziale, i diritti delle donne e l’intersezionalità. Non a caso, nel preambolo della piattaforma programmatica dell’evento, si riconosce che le donne hanno «identità che si intersecano e che subiscono pertanto l’impatto di una moltitudine» di questioni connesse alla giustizia sociale e ai diritti umani. Gli obiettivi spaziano dunque dalla giustizia razziale ed economica alla tutela dei diritti riproduttivi e Lbtq, alla salvaguardia dei diritti dei migranti e dei disabili, alla giustizia ambientale, alla lotta contro la violenza sul corpo delle donne e alle disuguaglianze di genere e razziali all’interno del sistema giudiziario. Una piattaforma composita, in cui si riconosce l’apporto dei movimenti precedenti, dal suffragismo al movimento per i diritti civili, dal movimento femminista a Occupy Wall Street sino al recente Black Lives Matter e al ruolo svolto da 27 «leader rivoluzionarie che ci hanno spianato la strada per marciare». Fra queste Angela Davis, Bella Abzug e Rachel Carson, mentre spicca l’assenza della prima candidata donna alla più alta carica istituzionale del Paese, cosa che alla vigilia dell’evento ha suscitato una serie di polemiche e la circolazione di una petizione che ne chiedeva l’inclusione in quanto di ispirazione per milioni di donne nel mondo. In realtà, nella piattaforma vi è il ben più rilevante riferimento al celebre discorso tenuto da Hillary Clinton a Pechino nel 1995. La frase pronunciata dall’allora first lady di fronte alla Conferenza mondiale sulle donne dell’Onu – «i diritti delle donne sono diritti umani» – costituisce l’incipit dello stesso Manifesto, seguita dalla sottolineatura che «da tale essenziale e autentico principio derivano tutti i nostri valori». Nonostante il tentativo del Manifesto di costruire una visione condivisa di giustizia e uguaglianza a partire dal riconoscimento dei diritti delle donne come diritti umani, il programma della marcia ha suscitato alcune polemiche poiché, secondo i detrattori, si concentra eccessivamente sulle donne afroamericane, piuttosto che su un’agenda che tenga in considerazione i diritti delle donne in maniera onnicomprensiva. Non è poi sfuggita ad alcuni commentatori la mancanza di riferimenti alle donne latine e, nonostante l’attenzione prestata ai temi della giustizia economica e sociale, e in particolare alla questione dell’equiparazione del salario fra donne e uomini, l’assenza del termine class.

Il presidente Trump, fedele alla sua retorica politicamente scorretta, ha minimizzato la marcia, chiedendosi pubblicamente perché le manifestanti non avessero partecipato alle elezioni appena celebrate. Minimizzazione che deve però fare i conti con una mobilitazione che non sembra volersi esaurire con la marcia del 21 gennaio, ma che al contrario pare tesa a trasformarsi in un movimento che abbraccia le istanze di quella parte della società americana che vede in Trump e nella sua amministrazione, con i suoi attacchi alle donne, alle minoranze, ai musulmani e agli immigrati, una minaccia alla libertà di espressione e a fondamentali diritti sociali ed economici.