Fra «traditori» ed «eroi». Nell’estate del 2011, mentre passeggiavo insieme a due amici in un parco di Esfahan, in Iran, si presentò a noi un signore di mezza età. Dopo averci raccontato, in perfetto italiano, dei suoi studi in Italia, proseguì: «Sapete, qui all’inizio pensavamo che tutto questo non sarebbe durato che un paio di anni… e invece, ora siamo quasi a trentatré». Non aggiunse altro e sparì, veloce com’era arrivato. Più volte ho ripensato all’amarezza di quel signore di Esfahan che si rattristava per non aver saputo decifrare quanto era accaduto nel suo Paese. Rivoluzionario o no, il quotidiano è un punto di partenza fallace per decifrare il futuro.

Quanto dureranno gli arresti di giornalisti, politici e accademici in Turchia? Ancora qualche mese? Qualche anno? Oppure l’intenzione è di trasformare la Turchia in «una prigione a cielo aperto», per dirla con le parole di Murat Belge, un intellettuale che ha speso la sua vita personale e accademica nella lotta per le libertà e i diritti umani? Dall’indomani del tentato golpe avvenuto nemmeno sei mesi fa, il 15 luglio 2016, il numero degli arresti convalidati, 40.000, è senza dubbio allarmante. Se si unisce a quello delle persone in fermo, 82.000, e alle 115.000 che hanno perso il lavoro, siamo di fronte a cifre che persino i più miopi farebbero fatica ricondurre alla normalità.

Al di là dello stato di emergenza, dichiarato il 21 luglio 2016 ed esteso per la seconda volta per altri tre mesi il 4 gennaio, è soprattutto dalla controversa Legge antiterrorismo che si deve partire per analizzare l’escalation di misure detentive. Emanata nel 1991, nel pieno del conflitto tra Ankara e Pkk, la legge ha conosciuto diversi emendamenti. Tra questi, nel 2015 è da ricordare l’approvazione di un Pacchetto per la sicurezza interna (Iç Güvenlik paketi) costituito da due leggi: la prima rafforza i poteri investigativi della polizia, disponendo la possibilità di condurre indagini, utilizzare armi, registrare e sottoporre a fermo individui senza formale mandato e di disperdere manifestanti da luoghi di protesta. La seconda legge si concentra invece sui media e in particolare su Internet, dando il potere al Primo ministro e ad altri ministri di rilievo di richiedere immediatamente la rimozione di contenuti e di bloccare siti web se non si fa seguito a una precedente ingiunzione e se ritenuti a rischio per la sicurezza.

Così il pacchetto sicurezza del 2015 ha ridefinito non solo la legge anti-terrorismo, ma anche il significato stesso del termine terrorista. Terrorista non è solo chi si fa saltare in aria tra la folla pronta a sfilare in un corteo ad Ankara o fa esplodere autobombe davanti alle caserme. Terrorista è anche un sito web che minaccia la sicurezza nazionale, terrorista è chi «insulta» il presidente della Repubblica a mezzo stampa e social network; terrorista è chi firma una petizione dietro una cattedra, chiedendo la pace con il popolo curdo; terrorista è l’ex alleato numero uno, il predicatore Fethullah Gülen, esiliato negli Stati Uniti con la sua comunità religiosa (cemaat) e il suo impero economico e mediatico, ribattezzato, dall’11 dicembre 2015, Organizzazione Terroristica (Fetullahçı Terör Örgütü, Fetö). Nel mirino ci sono quindi partiti, associazioni filo-curde e Fetö, due realtà così diverse eppure accomunate dalla stessa etichetta.

L’ondata di arresti è da ricondursi a due eventi chiave. Da una parte la rottura formale tra l’Akp di Erdoğan e la cemaat di Gülen iniziata nel dicembre 2013; dall’altra la fine del processo di pace, o meglio delle negoziazioni con i curdi, nel 2015. Per quanto riguarda la prima, le purghe hanno interessato la rete di imprese, scuole e ospedali legati alla cemaat già nei due anni precedenti al golpe dello scorso luglio – che, secondo il governo, è stato orchestrato dalla stessa comunità. Tuttavia, l’infiltrazione capillare della cemaat negli apparati statali è il risultato di un processo lungo almeno un decennio.

La ripresa degli scontri nel Sud Est del Paese, con intere zone sottoposte a coprifuoco e la serie di attentati in aree urbane da parte del Pkk e gruppi a esso riconducibili, ha riacceso le tensioni, portandole oltre il piano militare. I recenti arresti di circa 8.000 membri del Partito Democratico dei Popoli (Hdp), filo-curdo, tra cui i suoi leader nazionali, lo scorso novembre, non sono di certo segnali positivi per il dialogo, condizione necessaria per la pace. L’Hdp, ormai una presenza stabile nel Parlamento nazionale, con il 10% di voti e 59 seggi conseguiti alle elezioni del novembre 2015, è stato un interlocutore prezioso nelle negoziazioni tra governo e Pkk tra il 2013 e il 2015.

L’epurazione di apparati della burocrazia, di intellettuali e della classe dirigente in nome di una minaccia alla sicurezza nazionale può alimentare una polarizzazione – ed estremizzazione – della società. Se s’insinua nella popolazione la paura di far parte dell’opposizione, si rischia di soffocare una democrazia. Del resto, come si può rafforzare la società civile nella sua pluralità se intellettuali, giornalisti e membri dell’opposizione (curda e non) riempiono le carceri con l’accusa di terrorismo?

Gli arresti appaiono uno dei pochi punti fermi: collante per i sostenitori e monito per chi ha posizioni critiche. Soprattutto, essi alimentano una dicotomia che, come ha brillantemente sintetizzato l’antropologa Jenny White, attenta studiosa dei movimenti islamisti in Turchia, non lascia spazio a equivoci: tutto rientra in uno schema binario, o traditore (hain) o eroe (kahraman). È una riduzione semplicistica, o con me o contro di me, che svilisce e sgretola ogni dialogo. Riprendendo un’affermazione dello scrittore Nedim Gürsel all’indomani del fallito golpe, è come se i turchi dovessero per forza schierarsi «tra due imam», ossia tra due tendenze teocratiche: il predicatore Gülen da una parte, e il conservatorismo religioso dell’Akp che da 15 anni è al governo dall’altra.

E gli altri? Chi vince democraticamente le elezioni, governa anche per chi non ha votato per lui. È un assioma lapalissiano, eppure è una delle più grandi prove che ogni governo democratico dovrebbe impegnarsi a superare. Perché restringere gli spazi di opposizione e tacciare le voci scomode che rappresentano quell’altra parte di Turchia, oggi minoranza? A chi giova accentuare la polarizzazione sociale? È davvero questa l’unica strada per combattere il terrorismo?

Se una cosa si è rafforzata, è la minaccia di attentati su due fronti: uno di matrice curda e l’altro ad opera di individui o gruppi riconducibili all’Isis. L’ultimo di questi, avvenuto la notte di Capodanno nella discoteca «Reina» di Istanbul, ha simbolicamente chiuso un annus horribilis, se si considera che dal giugno 2015 hanno perso la vita più di 1.500 persone tra civili, militari e agenti di polizia.

L’instabilità sembra destinata a non placarsi. Gli scontri al confine turco-siriano e i futuri sviluppi della Dichiarazione di Mosca del 20 dicembre 2016, che sancisce la legittimità del governo siriano e segna un cambio di rotta nei rapporti della Turchia con Iran e Russia dopo cinque anni di politica anti-Assad, vedono molti riflettori internazionali puntati su Ankara.

Tuttavia, più la Turchia è nell’occhio del ciclone, più sale il rischio che si acuisca la crisi economica. Le magnifiche sorti del capitalismo che hanno agito da traino in questo decennio di crescita a marchio Akp hanno subito una battuta di arresto. A causa delle recenti svalutazioni della moneta e del calo degli investimenti esteri, la borghesia produttiva filogovernativa avrà presto bisogno di rassicurazioni. È soprattutto auspicabile (ma per ora poco prevedibile) che il 2017 porti a una normalizzazione dei rapporti con i partiti dell’opposizione e a una spinta inclusiva, che vada oltre l’individuazione di nemici comuni, e che esca soprattutto dall’arida distinzione fra traditori ed eroi.

 

[Questo articolo è stato pubblicato anche su «Osservatorio Balcani e Caucaso» il 9 gennaio 2017]