A cinquant’anni di distanza si può ben sostenere che l’alluvione di Firenze segna l’inizio di quella che di lì a qualche anno prenderà il nome di gentrificazione. La trasformazione operata dal ceto dei piccoli possidenti che si insediano incrementa la rendita urbana e provoca l’espulsione dei vecchi residenti e una selezione per censo dei luoghi occupati, una separazione sconosciuta nella città antica. Il fenomeno, al quale siamo oggi costretti da una nuova prepotente evidenza, fu solo una parte dei cambiamenti che investirono la città dopo il 4 novembre 1966.

La devastazione prodotta dall’acqua straripata dalle sponde dell’Arno accelerò l’abbandono dei laboratori artigiani che ancora si trovavano nella città antica e nella prima periferia otto-novecentesca. Oltre c’erano le ramificazioni di una periferia legata alle direttrici viarie principali e qualche area di edilizia popolare del primo Novecento, satelliti delle grandi fabbriche della prima zona industriale, che si espandevano nel disordine dei palazzoni.

 

 

Solo due quartieri nati per iniziativa pubblica voluti negli anni Cinquanta dal sindaco La Pira – l’Isolotto a Ovest e Sorgane a Est – si erano distinti per il disegno e la qualità insediativa dal magma dell’ edilizia privata, in cui il piano regolatore del ‘62 cercava di mettere ordine. Una di queste «lottizzazioni» nei primi anni Sessanta aveva distrutto, quasi senza scandalo, il giardino e il parco di villa Demidoff al ponte alle Mosse. Costruita in splendide forme neoclassiche sui ruderi del convento medievale di S. Donato di cui rimane la chiesa e il campanile, aveva un parco, visitato e ricordato dai viaggiatori del XIX secolo, ricco di piante esotiche, con una grotta monumentale e la limonaia più lunga e imponente della città. Il parco proseguiva con una ragnaia che si estendeva per alcune centinaia di metri fino a fronteggiare la villa degli Agli, mutilata ma sopravvissuta per essere a tutt’oggi demanio militare. Una risorsa inestimabile per la città, che si sarebbe potuta estendere intorno ad essa ma che, una volta distrutta, avrebbe suggerito ai pianificatori una compensazione, un tipo di spazio equivalente, un luogo centrale. Ciò che, invece, rimaneva della villa – le tre facciate del cortile e quella d’ingresso alla fine del 2010 – fu manomesso con la compiacenza di tecnici e amministratori pubblici, completamente ignari e incapaci di interpretare quelle illustri vestigia.

Nella fase immediatamente successiva all’alluvione, un ruolo fondamentale venne svolto dai tanti Comitati nati pochi giorni dopo il ritiro delle acque fangose. Inedita e sorprendente la capacità innovativa messa in campo nei comparti urbani popolari di appartenenza, dalla prima fino alla periferia più recente e lontana, per dotarla dei servizi e delle relative attrezzature. Se all’inizio si era trattato della pulizia di strade, piazze e giardini pubblici, già nella primavera del 1967 si affrontavano questioni più generali di traffico e di pedonalità, della ciclabilità continua e della conquista di nuovi spazi verdi attrezzati. L’impegno più rilevante fu però quello per le scuole dell’obbligo, le scuole dell’infanzia e i doposcuola autogestiti, che corrispondeva a una fase fortemente evolutiva della vita familiare e individuale.

Il processo di partecipazione imposto dalle aggregazioni spontanee avrà presto un’eco nazionale e darà luogo alla istituzione nel 1976 dei Consigli di Quartiere prima in numero di 14, poi accorpati in 5, e dagli anni Novanta progressivamente svuotati di ruolo e capacità deliberativa. Da notare come questo processo partecipativo avviato dal basso in seguito all’alluvione procedette in parallelo, talvolta anticipando, la migliore normativa urbanistica di quel periodo: l’obbligo di dotare le città degli standard minimi fissati dal decreto 144 del 4 aprile 1968, frutto della spinta popolare espressa delle due città più colpite dall’alluvione, Firenze e Venezia; la legge per la casa n. 865/1971; la legge n. 412/1975 – Norme sull’edilizia scolastica e piano finanziario d’intervento.

Tra le vertenze aperte e condotte con tenacia dai comitati verso l’amministrazione comunale, alcune ci raccontano come certe rivendicazioni elementari – quali aule scolastiche, scuole materne, aree verdi per i ragazzi - diedero origine a richieste più strutturali e più politiche per migliorare la qualità del proprio habitat e più in generale della propria vita. A confronto con la odierna svendita della città, colpisce la vertenza aperta dal comitato Monticelli/Pignone per l’acquisto di villa Strozzi sul caposaldo collinare Ovest della città storica, minacciata dal piano di lottizzazione del bellissimo parco, compreso il frazionamento degli edifici. In seguito a tre grandi manifestazioni organizzate nel corso del 1971, l’anno successivo il comune acquista l’intero complesso che diventa il fulcro della vita del quartiere e, con la Limonaia, un luogo di interessanti eventi cittadini. Non meno importanti le rivendicazioni per il recupero del cosiddetto Conventino, poco distante dalle mura dell’Oltrarno, per il recupero dei laboratori artigianali, ottenuto dopo lunghi anni e la vertenza del comitato di S. Jacopino per la trasformazione dell’area ex Ideal Standard in servizi sociali e scolastici.

Era quella un’urbanistica fatta sul campo, mossa da bisogni emersi dal disastro dell’alluvione che ha anticipato principi teorici e normativi progrediti, come il piano di Recupero (1978) e lo «stop al consumo di suolo» (legge della regione Toscana n. 5/1995, sul governo del territorio). Ma l’alluvione del 4 novembre 1966 segna anche una discontinuità e apre a un nuovo assetto capitalistico territoriale e urbano. Non solo la costante aggressione parassitaria alle risorse storico-artistiche o paesaggistiche. Si assiste in quegli anni alla estensione e redistribuzione territoriale dei luoghi lavorativi, all’aumentata importanza della logistica relativa alla segmentazione dei cicli produttivi, ai costi eccessivi del trasporto e al tentativo di scaricarli sulla comunità anche a costo di pesanti danni ambientali. Grandi estensioni della fertile piana dell’Arno vengono ricoperte di capannoni mentre il borgo rurale di Scandicci assume la forma di città non città di 100.000 abitanti, seguito in misure minori da Sesto Fiorentino, Calenzano, e nella forma pavillonaire da Campi Bisenzio e Bagno a Ripoli.

Più o meno spontaneamente gli apparati si orientano verso una distribuzione e una specializzazione in un’area vasta che si identifica con la valle dell’Arno, mentre Firenze si avvia a funzionare da polo commerciale, direzionale, amministrativo e di consumo. Quest’ultimo, sempre più legato al turismo e alla sottocultura del lusso, finirà per assumere una dimensione ipertrofica che ha assoggettato e deformato il centro storico.

In un memorabile Convegno sul Centro Urbano, organizzato nell’aprile del 1970 dalla Casa del Popolo Buonarroti nel quartiere popolare di S. Croce, Manfredo Tafuri ricordò che il Marx dei Grundrisse «legge la caduta tendenziale del saggio di profitto non più come elemento catastrofico per il capitale, ma come la molla dello sviluppo capitalistico […] Molla in cui egli stesso [Marx] fa rientrare non solamente lo sviluppo delle macchine o la prefigurazione della automazione, ma anche la stessa lotta operaia». Argomentò Tafuri: «la gestione diretta del territorio dal punto di vista del capitale. Non solo quindi estrazione di plusvalore dal lavoro operaio, ma addirittura […] dalla stessa gestione e integrazione degli elementi del territorio».

Proposizioni pronunciate mentre si cercava di collocare in ambito politico le trasformazioni cui si è accennato, che mi sembrano utili oggi, nella fase di dominio del capitale finanziario, per riflettere sulla rinuncia del recente Piano strutturale fiorentino a qualsiasi ipotesi strategica che guardi alla città dei cittadini e la riduzione del Regolamento urbanistico a un elenco di immobili e di ingannevoli aree sportive disponibili per un’urbanistica à la carte, offerta al mercato, alla portata di tutte le borse. Purché ricche e magari anonime.