È davvero difficile immaginare che tipo di politica estera e di sicurezza ci si possa aspettare dalla futura amministrazione di Donald Trump. Se solo dovesse dar corso a una minima parte di quel che il neo-presidente ha detto e proposto in questo ultimo anno, il mondo precipiterebbe rapidamente in una spirale di conflitti commerciali e valutari, corse agli armamenti e deportazioni di massa di immigrati illegali. Ciò evidentemente non accadrà – o non avverrà con la radicalità promessa da Trump - ma è oggi impossibile prevedere quale delle tante visioni dell’internazionalismo conservatore statunitense sarà egemone in futuro, anche perché durante la campagna elettorale si è assistito all’ammutinamento di quasi tutti gli esperti repubblicani in materia (che hanno fatto circolare e firmato appelli nei quali si denunciava il nuovo presidente come «del tutto inadeguato per l’ufficio presidenziale»). Non sappiamo, insomma, ancora chi saranno i principali consiglieri per le questioni internazionali e questi primi giorni post-elettorali fanno prevedere una transizione caotica, il cui risultato finale potrebbe essere quello di avere una squadra per nulla omogenea o particolarmente qualificata.

Rispetto ai principali, complessi dossier di politica estera, ve ne sono due – le relazioni transatlantiche e quelle transpacifiche - rispetto ai quali alcune considerazioni possono essere avanzate. Il primo è il teatro cruciale delle relazioni internazionali correnti, e oggetto primario quindi delle attenzioni statunitensi: quell’Asia-Pacifico dove corrono, profonde e contraddittorie, alcune delle principali interdipendenze della nostra epoca. E dove esiste oggi una complessa co-egemonia regionale, nella quale il crescente primato commerciale cinese è bilanciato da quello securitario degli Usa, costruito per il tramite di garanzie statunitensi nel quadro di accordi e impegni bilaterali.

Tra queste due egemonie vi è stata, negli ultimi anni, una certa, paradossale complementarità: al crescere dei legami economici con la Cina, e all’aumento dell’influenza di quest’ultima, molti Paesi dell’area hanno risposto intensificando i rapporti con gli Usa in materia di sicurezza ossia chiedendo appoggio, aiuti e protezione a Washington (un caso emblematico è quello del Vietnam). Dentro un equilibrio fragile e pericoloso – contraddistinto da spinte all’integrazione collaborativa e tentazioni di competizione, alimentate anche da dinamiche interne a Cina e Stati Uniti – gli Usa hanno immaginato fosse possibile bilanciare il primato commerciale cinese attraverso l’accordo transpacifico (Trans-Pacific Partnership, Tpp) firmato il febbraio scorso, ma che Washington non ha ancora ratificato. E che di certo non ratificherà in questi mesi d’interregno tra Obama e Trump né, presumibilmente, dopo l’entrata in carica della nuova amministrazione. Un tassello fondamentale della strategia statunitense verrebbe quindi meno, con una triplice possibile conseguenza: di vedere ulteriormente rafforzata l’egemonia commerciale cinese; d’indurre alcuni stati dell’area a cercare un qualche riavvicinamento con Pechino anche sui temi della sicurezza (ciò che le Filippine di Duterte hanno già minacciato di fare); di rafforzare le tentazioni di taluni, Giappone su tutti, a seguire percorsi unilaterali di riarmo e rafforzamento, con rischi molto elevati per la stabilità dell’area.

Per quanto concerne l’Europa l’esibita ammirazione di Trump per Putin è difficile produca svolte radicali, almeno sul breve periodo, anche perché sui due dossier principalmente condizionati dai rapporti russo-statunitensi - l’Ucraina e la Siria - non esistono in alcun modo soluzioni rapide e semplici (la convergenza tra Washington e Mosca è una condizione, vitale ma non esclusiva, tra le tante che debbono essere realizzate). Più probabile è che la straordinaria impopolarità del nuovo presidente in Europa, e l’incentivo elettorale che vi sarà nell’assumere posizioni critiche nei confronti degli Usa, acuisca difficoltà già esistenti. Che accentui cioè un distacco tra Europa e Usa figlio anche di una progressiva subordinazione del continente nelle priorità strategiche americane che solo la crisi ucraina ha in parte, e forzosamente, contenuto. A questo va aggiunta l’immaginabile contrapposizione su un tema – l’azione multilaterale contro il cambiamento climatico – rispetto al quale Trump potrebbe incidere da subito. La promessa del neo-presidente di rovesciare le politiche introdotte da Obama sulla riduzione delle emissioni – limitando l’energia prodotta con fonti fossili, introducendo standard stringenti e sussidiando le rinnovabili – appare assai credibile e destinata ad avere riverberi globali. Da un lato l’Europa sarebbe chiamata a surrogare la defezione degli Stati Uniti e riacquisirebbe una posizione di leadership, come in parte fu nell’altra fase di negazionismo ambientale statunitense durante gli anni di Bush; dall’altro, la defezione americana renderebbe più complicata, se non impossibile, l’azione multilaterale avviata con gli accordi di Parigi del 2016.

Ma quello dell’ambiente è solo uno dei tanti tavoli sui quali l’elezione di Trump chiama l’Europa, e soprattutto la sua guida tedesca, a un protagonismo e un’assunzione di responsabilità per i quali solo il tempo ci dirà se esse sono all’altezza.