Da molto tempo il nostro Paese non riesce a trovare un assetto politico capace di affrontare i principali problemi economici che lo affliggono. Dopo alcuni anni di politica «normale», affidata ai politici di professione, deve intervenire un governo tecnico, affidato a un economista di prestigio e sino a quel momento estraneo alla vita politica. Intervento indispensabile per riportare sotto controllo i principali squilibri economici che i partiti avevano creato o non erano riusciti a evitare. La vicenda era iniziata con la crisi politica ed economica del 1992-93, quella che distrusse i partiti della Prima repubblica, e l’economista chiamato al capezzale del sistema fu Carlo Azeglio Ciampi. Ed è continuata con la chiamata alla stessa funzione di Mario Monti, nel 2011. C’è il rischio che essa si ripeta nei prossimi mesi, se dovesse prevalere il «no» al referendum e Matteo Renzi dovesse rassegnare le proprie dimissioni, come sarebbe inevitabile.

Tre le prime due vicende — effettive — e la terza — futura e possibile — corrono differenze di rilievo. La chiamata di Ciampi avviene prima del nostro ingresso nel sistema monetario europeo, a seguito di un attacco speculativo contro la lira: l’inflazione è superiore a quella degli altri Paesi, il debito pubblico elevatissimo e fuori controllo. L’attacco produce una forte svalutazione ma i suoi esiti peggiori sono sventati dalle misure draconiane prese dal governo Amato. Ciampi prosegue nella stessa direzione mentre i partiti di governo, travolti dal turbine di Tangentopoli, non sono in grado di proporre un candidato della stessa autorevolezza.

Con Monti siamo ormai membri del sistema monetario europeo, ma gli anni delle vacche grasse — tra il 2000 e il 2008, quando sarebbe stato ancora possibile dare segni evidenti di riduzione del debito e di riforme strutturali incisive — vengono sprecati. La crisi finanziaria americana del 2007-2008 provoca una forte recessione in Europa: in Italia il reddito crolla e con esso le aspettative di ridurre il debito. I capitali cominciano a evitare i titoli di Stato italiani, la differenza di rendimento con i meno rischiosi titoli tedeschi (il famoso spread) si amplia sempre di più e il governo sembra incapace di prendere misure che rassicurino gli investitori. Le prende invece Monti, chiamato alla presidenza del Consiglio con una procedura perfettamente legittima, ma piuttosto inconsueta.

Ho ricordato in modo telegrafico questi due notissimi episodi del nostro recente passato per sottolineare che né il consociativismo e l’assemblearismo della Prima repubblica, in presenza di una legge elettorale proporzionale, né il bipolarismo di coalizione, prodotto dalle leggi maggioritarie della confusa fase successiva, sono stati in grado di produrre un buon governo dell’economia. Il male è più profondo: i partiti italiani, prima e dopo dello sconquasso di Tangentopoli, non sono riusciti a far capire agli italiani che nel contesto esigente di un regime internazionale neoliberale e globalizzato, sommato a una situazione politica dell’Eurozona che rende improbabile un vigoroso programma comune di investimenti, riforme radicali sono una dura necessità. E se un capo di governo, tecnico o politico che sia, tenta di imporle, esso viene rimosso dopo le prime misure di emergenza e prima che il suo programma abbia avuto modo di incidere sulle ragioni di fondo della scarsa competitività del nostro Paese. Un programma di questa portata, anche il migliore dei programmi possibili, esige molto tempo prima di dare i suoi frutti. Ma il tempo manca in democrazia: facendo leva sui disagi, l’insoddisfazione, la rabbia degli elettori, anzi fomentandoli, si trova sempre un insieme di forze politiche — tradizionali o comparse come funghi nella notte dell’indignazione — in grado di interrompere l’azzardato tentativo. Per poi ricadere, naturalmente, negli stessi problemi che l’avevano motivato: i problemi strutturali non risolti hanno la testa dura.

Vorrei sbagliarmi, ma temo che il governo Renzi corra lo stesso rischio. Questa volta non perché i convitati di pietra dell’Europa e del regime economico internazionale — convitati con i quali il nostro Paese deve necessariamente convivere — sanzionino la debolezza del tentativo riformatore: questo era stato il caso di Berlusconi. E neppure per l’estraneità alla politica «normale» di un governo tecnico: questo era stato il caso di Monti. Ma per l’avversione di gran parte del ceto dei partiti alle misure, economiche e soprattutto istituzionali, adottate da un governo politico, misure che avevano però incontrato un condizionato consenso in Europa e a livello internazionale. Non è la politica di Renzi a giustificare il rialzo dello spread o la fuga dei capitali, ma il timore che questa venga interrotta a seguito di un voto negativo nel referendum del 4 dicembre. È un comprensibile timore di instabilità e di ritorno al passato: non c’è nessuna forza politica europeista e nessun leader che possano rapidamente raccogliere il testimone strappato a questo governo. E un nuovo governo «tecnico», sostenuto da una maggioranza incoerente, sarebbe soltanto una soluzione dilatoria, che segnalerebbe l’incapacità di auto-riformarsi del sistema politico italiano. I timori del convitato di pietra temo siano giustificati.

 

[Questo articolo è stato pubblicato sul «Corriere della Sera» il 7 novembre 2016)