Sembra farsi largo, in ambito accademico e sempre più spesso fuori da esso, una sociologia coraggiosa frutto del lavoro di alcuni giovani ricercatori che camminano lungo i sentieri impervi del conflitto sociale. Sono sociologi che ascoltano le ragioni di donne e uomini, italiani e migranti, quotidianamente dentro un sistema di produzione che esprime forme antiche e nuove di sfruttamento ed emarginazione. Ciò vale soprattutto per quegli studiosi che intervistano e a volte convivono con lavoratori e lavoratrici impiegati, come manodopera, in attività agricole faticose e mal retribuite.

Si potrebbero citare molte ricerche e decine di storie. L'ultima ha riguardato il Nord Italia e precisamente le colline del moscato albese. A fine settembre le forze dell'ordine hanno trovato, in un cascinale di Mango, in Piemonte, circa 70 lavoratori stagionali stipati in locali che a fatica avrebbero potuto accoglierne una decina. Altri 20 lavoratori sarebbero stati trovati in un’altra cascina tra i Comuni di Barbaresco e Neive, anch’essi in pessime condizioni igienico-sanitarie. Sarebbero quasi tutti macedoni e rumeni arrivati in Langa per l'annuale vendemmia. Solo pochi giorni prima, un lavoratore rumeno di 66 anni è deceduto mentre lavorava con altri connazionali reclutati da una cooperativa rumena, in una vigna di Erbusco, nel bresciano. Nella prima settimana di agosto, 49 persone sono state denunciate dalla Guardia di Finanza di Montegiordano, nel cosentino, al termine di un'indagine finalizzata al contrasto del caporalato. Le indagini hanno identificato un migrante, di nazionalità pakistana, considerato l'intermediario, nella piana di Sibari, per imprenditori agricoli che domandavano manodopera illegale e a basso costo. Il «caporale», nella gestione dell'attività illecita, aveva rapporti con due italiani in regime di protezione e affiliati ad una ‘ndrina locale, con 19 migranti irregolarmente soggiornanti e con un latitante.

Secondo le indagini, i lavoratori reclutati venivano alloggiati in stalle e porcili adibiti a dormitori e in condizioni igieniche-sanitarie degradanti. A questo si aggiunge il caso dell'uso di sostanze dopanti da parte dei braccianti pontini, in particolare indiani, allo scopo di sopportare le fatiche a cui sono obbligati da datori di lavoro che prescindono dal rispetto del relativo contratto. Un sistema che è stato definito «padronale» e che deriva da uno squilibrio tale nei rapporti di forza da rinviare a condizioni evidenti di riduzione in schiavitù o servitù. Ciò assume caratteri drammatici con riferimento alle donne, costrette allo sfruttamento e, a volte, anche a subire ricatti e violenze sessuali.

Lʹesercizio della prevaricazione, quale espressione di comportamenti e azioni che impediscono o negano alla controparte le sue libertà e tutti o alcuni dei suoi diritti, si lega spesso a quello dell’estorsione, ossia comportamenti coercitivi e assoggettanti con minaccia di punizioni nei confronti dei lavoratori che non cedono, o fanno resistenza, alla prevaricazione.

Tutto questo non è alieno dal capitalismo contemporaneo ma, al contrario, risulta inserito nei suoi meccanismi, dove il sistema agro-industriale risulta essere sempre più espressione di un modello di produzione e commercializzazione che vede la complicità strumentale e strutturale di diversi soggetti, come il datore di lavoro, il caporale, il trafficante, attori pubblici, liberi professionisti, la stessa grande distribuzione organizzata e, a volte, esponenti di clan mafiosi italiani e stranieri. Un'alleanza che anziché produrre crescita civile ed economica genera sfruttamento. Secondo Enzo Nocifora, i lavori agricoli in ampie zone del Mezzogiorno, ai prezzi stracciati che il controllo camorristico del commercio all’ingrosso impone, non sarebbero possibili, oggi, senza la disponibilità di grandi masse di manovalanza priva di ogni diritto, che dorme e mangia dove può e quando può, pronta a scappare al più piccolo segnale di controllo.

Alcune proposte mirano addirittura ad introdurre forme di «cottimo», emblema di un modello che non cede al diritto ma lo sovrasta.

Di queste condizioni ogni ricercatore sociale fa esperienza di ricerca attraverso l’incontro, entrando nei territori dello sfruttamento. Il dialogo con questi lavoratori, la conduzione di interviste in profondità, la costruzione di un rapporto di fiducia, di confidenza e di empatia, sommata a una rigorosa e corretta metodologia, costituiscono la chiave per comprendere le condizioni reali di vita e di lavoro di centinaia di migliaia di persone. In assenza di questo approccio si rischia di produrre «analisi distanti e distratte».

Non si tratta di ricerca «militante», ma di una ricerca che frequenta i territori dell'emarginazione, della ghettizzazione, dello sfruttamento, capace di delineare i contorni di una nuova organizzazione e divisione globale del lavoro, figlio, come afferma Alessandra Corrado, della ristrutturazione post-fordista dei sistemi produttivi e della trasformazione dei rapporti sociali.

Il diritto penale, certo, come riconosce il magistrato Antonio Bevere, da solo non garantisce la difesa efficiente ed efficace della libertà e della dignità dei lavoratori insieme al fondamentale rispetto dell’articolo 36 della Costituzione, che fissa la retribuzione affinché assicuri al lavoratore una esistenza libera e dignitosa, sebbene in questo senso la riforma del codice antimafia in discussione in Parlamento contenga proposte condivisibili.

Sempre più occorrono anche ricerche coraggiose, insieme ad azioni determinate nei confronti del decisore pubblico per modificare poco alla volta questo inaccettabile stato di cose.