Maggio è stato un mese favorevole a Donald Trump. Dopo la vittoria alle primarie in Indiana e il ritiro degli ultimi due contendenti (Cruz e Kasich), si è trovato la via spianata per la nomina alla convenzione repubblicana di Cleveland in luglio. Nonostante avesse la nomina in tasca, ha continuato a far campagna negli Stati che non avevano ancora avuto le primarie, con comizi focalizzati contro Hillary (crooked Hillary) e i «poteri forti», a cui ogni volta hanno partecipato migliaia di persone. In parallelo, Trump ha cercato, con successo, di assicurarsi l’appoggio (seppur obtorto collo) della leadership repubblicana, a partire da Paul Ryan (lo speaker della Camera) e Mitch McConnell (il leader della maggioranza repubblicana al Senato).

Maggio è stato invece un mese difficile per Hillary Clinton. Dopo aver perso a sorpresa l’Indiana, ha dovuto cedere a Sanders anche la West Virginia e l’Oregon, riuscendo a vincere di misura solo in Kentucky e Washington. Di conseguenza ha dovuto concentrare le sue energie nelle primarie della California, lo stato più popoloso, non tanto per assicurarsi un numero sufficiente di delegati (quelli di fatto ce li aveva già), ma per mostrare che aveva l'appoggio degli elettori democratici e dimostrare che non era una candidata debole e poco amata dalla base del partito.

In seguito a questi sviluppi, nel corso del mese di maggio Donald Trump ha cominciato a recuperare nei sondaggi il notevole svantaggio (talora superiore a dieci punti percentuali) che lo separava dalla Clinton: a fine maggio tre sondaggi (Fox, Abc e Rasmussen) lo davano addirittura in testa. La tendenza positiva per Trump era anche confermata dal fatto che altri sondaggi indicavano che una maggioranza di americani aveva più fiducia in The Donald che in Hillary su questioni quali la gestione dell’economia e la creazione dei posti di lavoro.

Poi, in giugno, il vento è cambiato. Invece di attaccare sull’economia, sulla sfida all’establishment e sul controverso passato della Clinton (i temi più promettenti per il candidato repubblicano), Trump si è impantanato in una battaglia dai toni razzisti contro un giudice federale che si sta occupando delle denunce (civili) di frode contro la Trump University (Trump considera il giudice non imparziale perché di origini messicane).

Questa controversa posizione ha provocato la presa di distanza di diversi leader repubblicani e il ritorno di un clima di sfiducia e sospetto reciproco tra Trump e i quadri del partito. Inoltre, l’idea che un giudice nato negli Stati Uniti da genitori non statunitensi non possa essere considerato pienamente americano non è andata giù ad una parte dei potenziali elettori, che hanno cominciato a prendere le distanze dal candidato repubblicano.

Per Trump l’incidente non poteva avvenire in un momento peggiore. Solo alcuni giorni dopo le intemperanze verbali di The Donald contro il giudice, Hillary Clinton otteneva convincenti vittorie nel New Jersey e chiudeva de facto la battaglia delle primarie in campo democratico. Anche se Sanders non si è ufficialmente ritirato dalla corsa, il partito democratico si è ricompattato dietro Hillary Clinton, che ha ricevuto l’endorsement di leader come Biden, Pelosi e Warren. Non solo, una volta che Hillary ha ufficialmente ottenuto i numeri per la nomina, Obama è sceso in campo per sostenerla e attaccare il candidato repubblicano.

Trump si è dunque trovato col fianco scoperto, proprio quando Hillary Clinton, Barack Obama e il partito democratico stavano per lanciare in modo coordinato una potente controffensiva per riguadagnare il terreno perduto nel mese di maggio. I risultati non hanno tardato ad arrivare.

Dalla seconda settimana di giugno, Hillary è tornata in testa in tutti i sondaggi con margini che variano tra il 2% e il 12% (con una media del 6%). In parallelo, Trump ha registrato record di impopolarità mai raggiunti nel passato da un candidato alla presidenza.

Neanche l’attacco terroristico di Orlando è riuscito a risollevarne le sue fortune. L’enfasi sulle origini afghane dell’attentatore (nonostante fosse nato negli Stati Uniti) e la reiterazione della richiesta di non consentire l’entrata ai musulmani negli Stati Uniti questa volta hanno fatto cilecca.

Con The Donald in caduta libera nei sondaggi e il timore che porti con sé il partito nelle elezioni per Camera e Senato, l’insurrezione anti-Trump ha ripreso vigore e vi sono speculazioni (anche se la cosa sembra molto improbabile) che la convenzione di Cleveland potrebbe scegliere un candidato diverso. Inoltre, l’establishment repubblicano nelle ultime due-tre settimane si è distanziato ulteriormente dal proprio candidato e l’appoggio a lui fornito da molti senatori e deputati (preoccupati per la loro rielezione) varia tra il tiepido e il non-esistente.

Dopo aver licenziato in tronco il manager della campagna delle primarie a metà giugno, Trump solo ora, vale a dire con molto ritardo, sta mettendo in piedi una struttura in grado di raccogliere fondi e di renderlo competitivo negli Stati dove il grado di indecisione è elevato (i cosiddetti swing states: Ohio, Florida, Pennsylvania ecc.). Questa debolezza nella struttura organizzativa che dovrebbe sostenere il candidato repubblicano (attualmente lo staff che lo circonda è di circa 70 persone, contro le 700 di Hillary) appare chiaramente sia nell’incoerenza e inconsistenza del suo programma elettorale che nei dati riguardanti le donazioni politiche: all’inizio di giugno Trump aveva a disposizione solo 1,3 milioni di dollari, contro i 41 milioni di Hillary Clinton.

Sulla base di quanto sopra si può concludere che il declino di Donald Trump è ormai definitivo? In realtà, è ancora troppo presto per dirlo. I repubblicani sperano che l’investigazione della Fbi sulle mail della Clinton faccia emergere azioni criminali che costringano Hillary a ritirarsi, o quantomeno la squalifichino agli occhi dell’opinione pubblica. Inoltre, il sentimento anti-establishment su cui hanno fatto leva, in modi certo molto diversi, sia Trump che Sanders resta forte in ampie fasce dell’elettorato americano. Con una campagna elettorale più efficace e mirata (una svolta in questo senso la si è avuta il 22 giugno con il discorso-requisitoria contro Hillary Clinton, ma non è chiaro se durerà), recuperare sei punti a questo stadio è tutt’altro che impossibile (ed è successo in precedenti contese presidenziali). Infine, come ben sanno i suoi quindici sfidanti alle primarie, Trump non va mai sottovalutato.

Quel che è certo però è che giugno è stato devastante per il candidato repubblicano e, se non si riscontra un’inversione di tendenza nei sondaggi di qui alla convenzione repubblicana di Cleveland, è difficile immaginare come The Donald possa recuperare il terreno perduto.