Che succede, insomma? Dobbiamo sentirci italiani? Non dobbiamo sentirci italiani? Perché sono questi, in definitiva, gli interrogativi che la celebrazione del centocinquantesimo dell’Unità pone. Francamente penso che ci siano ottimi motivi per sentirsi parte di una comunità politica italiana. E penso anche che quegli ottimi motivi dovremmo andarli a cercare in prima istanza nella Costituzione della Repubblica, che è il patto fondativo che ci lega davvero. Lì, nella prima parte, nella sezione dei valori, così come nella seconda, quella relativa all’architettura costituzionale, possiamo trovare seri motivi di orgoglio, poiché si tratta di una Costituzione nel suo complesso molto bella, e tale da aver garantito le libertà di tutti (sottolineo: assolutamente tutti) dal 1948 a oggi.

Dopodiché è anche giusto che per un anno, e in occasione del 150o, si celebri la data del 17 marzo considerandola festa nazionale. Ma solo per un anno. Perché la Repubblica italiana le sue feste di fondazione le ha già, e sono il 25 aprile e il 2 giugno. Eventi molto belli da ricordare: la Liberazione, la Repubblica, l’elezione dell’Assemblea Costituente a suffragio universale sono evidentemente momenti importanti, carichi di una grande quantità di valori positivi: la fine di una dittatura; la fine di una guerra e di una minacciosa occupazione straniera; l’inizio di una lunga stagione di piena e larga libertà.

E qui mi fermerei. Nel senso che non andrei oltre a cercare nel passato ragioni per sentirci parte di una comunità politica coesa. E ciò perché il recupero del Risorgimento o addirittura della storia precedente in funzione patriottica è possibile solo attraverso la costruzione di una rappresentazione mitica che semplifichi, purifichi e in definitiva distorca le vicende storiche che si considerano come fondative. Che appartengono a contesti culturali lontani. Immersi in culture politiche diverse. E in qualche caso anche impregnate di valori ideologici tossici.

Se ne vuole un esempio? Ebbene, si prenda la rilettura dell’Inno di Mameli, proposta da Roberto Benigni durante il Festival di Sanremo. Può darsi che le intenzioni che hanno animato il comico toscano siano state le più positive possibili. Può darsi che egli volesse solo dar voce a un sentimento di amor patrio da rilanciare in funzione antileghista. Benissimo. Il problema è che è andato a prendere, senza alcuna mediazione critica, un testo del 1847 che è del tutto interno a una cultura nazionalista i cui assunti essenziali sono questi:

a) considerare le nazioni come comunità di discendenza, che affondano le loro radici nel più lontano passato storico: nel caso specifico la Roma di Scipione l’Africano, la Lega lombarda, i Vespri siciliani, e così via. Ora, qui ciò che deve far riflettere non è soltanto che questa ricostruzione è storicamente infondata, quanto anche che – attraverso tale ricostruzione – passa l’idea secondo la quale la nazione italiana esiste da sempre, ed è una realtà genealogica e perfino biologica; il sottotesto inevitabile di questa ricostruzione è che la nazione è fatta di lingua e cultura, certo (ma a proposito: Scipione e Alberto da Giussano parlavano italiano?), ma anche, e soprattutto, di sangue e di suolo;

b) considerare le nazioni come sistemi di differenza: «noi» siamo «noi» perché siamo diversi da «loro», che hanno lingua, cultura, caratteri fisici, storia che non ci riguardano e non ci appartengono; il passo successivo contenuto in questa considerazione è che – in quanto diversi – gli «altri da noi» sono anche pericolosi, e forse minacciosi; diventano, cioè, dei nemici. Ecco, tutto questo processo nell’esibizione di Benigni è stato attraversato in un lampo, con l’uso dell’espediente retorico – ben noto al discorso nazionalista – della demonizzazione retrospettiva degli stranieri; e non importa che questi stranieri siano francesi, tedeschi, spagnoli o austriaci, poiché sono comunque tutti selvaggi, violenti, stupratori e oppressori (questa la descrizione data da Benigni quando ha fatto l’esegesi dell’Inno di Mameli);

c) considerare, infine, la comunità nazionale come una comunità sacrificale, e quindi abbandonarsi all’esaltazione e al culto della morte in guerra. Ora è chiaro che non c’è nessun motivo per non osservare con serietà e con rispetto le morti di molti che hanno combattuto per le proprie idee (affermazione che, peraltro, potrebbe anche suscitare imbarazzanti interrogativi: anche gli interventisti, o i fascisti, o i brigatisti rossi andrebbero collocati nel martirologio?). Ma a parte altre considerazioni, che senso ha, nel 2011, rilanciare il culto del pro patria mori? Al momento – con nostra grandissima fortuna – non siamo in guerra con nessuno; e non abbiamo dunque bisogno di convincere le masse della bontà del sacrificio, del martirio bellico e del valore guerriero. E dunque, perché baloccarsi con valori così sinistri?

Il punto, fra l’altro, è che questi sono proprio i valori che strutturano l’amor patrio coltivato dal nazionalismo ottocentesco. Se ne vuole un’altra prova? Si prenda una delle pagine politicamente più dense di Cuore, pubblicato nel 1886. Il libro di De Amicis non è solo un’efficace narrazione di un anno scolastico vissuto da un bambino di una terza elementare torinese, Enrico Bottini: è anche una rivisitazione appassionata degli ideali che hanno animato il Risorgimento e un’esaltazione del dovere del sacrificio civico e patriottico. Ma che cos’è, per De Amicis, l’amor di patria? Ce lo spiega in una pagina del libro in cui il padre di Enrico Bottini aggiunge sul diario del figlio le sue considerazioni e gli spiega – per l’appunto – il concetto scrivendo:

L’amor di patria

24, martedì

Poiché il racconto del Tamburino t’ha scosso il cuore ti doveva esser facile, questa mattina, far bene il componimento d’esame: – Perché amate l’Italia? Perché amo l’Italia? Non ti si son presentate subito cento risposte? Io amo l’Italia perché mia madre è italiana, perché il sangue che mi scorre nelle vene è italiano, perché è italiana la terra dove son sepolti i morti che mia madre piange e che mio padre venera, perché la città dove sono nato, la lingua che parlo, i libri che m’educano, perché mio fratello, mia sorella, i miei compagni, e il grande popolo in mezzo a cui vivo, e la bella natura che mi circonda, e tutto ciò che vedo, che amo, che studio, che ammiro, è italiano. Oh tu non puoi ancora sentirlo intero quest’affetto! Lo sentirai quando sarai un uomo, quando ritornando da un viaggio lungo, dopo una lunga assenza, e affacciandoti una mattina al parapetto del bastimento, vedrai all’orizzonte le grandi montagne azzurre del tuo paese; lo sentirai allora nell’onda impetuosa di tenerezza che t’empirà gli occhi di lagrime e ti strapperà un grido dal cuore. Lo sentirai in qualche grande città lontana, nell’impulso dell’anima che ti spingerà tra la folla sconosciuta verso un operaio sconosciuto, dal quale avrai inteso, passandogli accanto, una parola della tua lingua. Lo sentirai nello sdegno doloroso e superbo che ti getterà il sangue alla fronte, quando udrai ingiuriare il tuo paese dalla bocca d’uno straniero. Lo sentirai più violento e più altero il giorno in cui la minaccia d’un popolo nemico solleverà una tempesta di fuoco sulla tua patria, e vedrai fremere armi d’ogni parte, i giovani accorrere a legioni, i padri baciare i figli, dicendo: – Coraggio! – e le madri dire addio ai giovinetti, dicendo: – Vincete! – Lo sentirai come una gioia divina se avrai la fortuna di ve-dere rientrare nella tua città i reggimenti diradati, stanchi, cenciosi, terribili, con lo splendore della vittoria negli occhi e le bandiere lacerate dalle palle, seguiti da un convoglio sterminato di valorosi che leveranno in alto le teste bendate e i moncherini, in mezzo a una folla pazza che li coprirà di fiori, di benedizioni e di baci. Tu comprenderai allora l’amor di patria, sentirai la patria allora, Enrico. Ella è una così grande e sacra cosa, che se un giorno io vedessi te tornar salvo da una battaglia combattuta per essa, salvo te, che sei la carne e l’anima mia, e sapessi che hai conservato la vita perché ti sei nascosto alla morte, io tuo padre, che t’accolgo con un grido di gioia quando torni dalla scuola, io t’accoglierei con un singhiozzo d’angoscia, e non potrei amarti mai più, e morirei con quel pugnale nel cuore. 

TUO PADRE

Non c’è dubbio che si tratti di un passo emozionante; e son convinto che molti lettori nell’Italia liberale o in quella fascista, quando il testo ha avuto larga diffusione e intenso uso didattico, dopo aver letto questa pagina si siano commossi e abbiano sentito di amare di più l’Italia. Ma se ci si riflette solo un secondo, le ragioni addotte da De Amicis per amare la patria sono alquanto inquietanti.

Il sangue italiano. Ma esiste un «sangue italiano»? Potevano ben crederlo nel XIX secolo, ma adesso abbiamo cognizioni sufficienti per sapere che non è una nozione che abbia né alcun fondamento né alcun significato. Il dovere del sacrificio eroico. Ma qualcuno oggi direbbe al suo figlioletto di otto, nove, dieci anni, le stesse parole che l’ing. Bottini dice a suo figlio? «Mettiti bene in testa che preferirei vederti morto, piuttosto che salvo ma senza onore»? «Mettiti bene in testa che la sofferenza, la mutilazione, la morte in battaglia è un valore supremo»? Voglio sinceramente credere di no; che non ci sia nessuno che coltivi simili idee. E allora perché esaltarsi davanti all’idea della bellezza della morte in battaglia? Tanto più che le persone che nell’Ottocento o nel primo Novecento enunciavano valori di questo genere non lo facevano in forma retorica; pensavano davvero che – se ce ne fosse stato bisogno – avrebbero dovuto coraggiosamente morire in battaglia. Del resto, quando Mameli scrive «Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte», non scrive una frase vuotamente retorica; tant’è che lui, un anno e mezzo dopo aver scritto quel verso, muore per davvero per una ferita ricevuta in battaglia. Ma uno che oggi pronunci quel verso, vuole dire la stessa cosa? Vuol dire di essere pronto a militare in un battaglione, a prendere il fucile e a offrire il suo petto ai proiettili dei nemici? A qual fine, visto che non siamo in guerra e visto che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11 della Costituzione della Repubblica italiana)? E allora, così stando le cose, perché dovremmo coltivare ideali così sinistri?

Nella sua esibizione a Sanremo Benigni ha cercato di distinguere tra patriottismo e nazionalismo. Molto bene. Condivido. Ma la distinzione non è così ovvia come si potrebbe pensare. Anche perché nel corso dell’Ottocento il patriottismo è diventato un atteggiamento indistinguibile dal nazionalismo, giacché le ragioni per le quali allora si doveva amare la patria erano quelle dettate dall’ideologia nazionalista. La pagina di Cuore lo mostra molto bene. Penso che De Amicis si immaginasse animato da un candido sentimento patriottico e non da un brutale nazionalismo: di fatto, però, i valori che danno senso al suo amor di patria sono proprio quelli del nazionalismo risorgimentale e post-risorgimentale.

Lo strettissimo collegamento tra patriottismo e nazionalismo è un aspetto della cultura politica italiana ottocentesca e primonovecentesca che si apprezza chiaramente solo osservando con attenzione i testi coevi. E che si rischia di trascurare enunciando – come se fosse una verità evidente e indiscutibile – una presunta ovvia distinzione tra patriottismo «buono» e nazionalismo «cattivo».

Ma c’è un possibile patriottismo «buono»? Certo che c’è: è il patriottismo costituzionale. Che non è certamente un concetto banale, né di facile diffusione; ma non per questo è meno «buono». E «buono» lo è – fra le altre cose – in quanto invita a sentirsi parte di una comunità politica non perché si pensa di discendere da Scipione l’Africano o perché si pensa di avere nelle vene del «sangue italiano», ma perché ci si sente legati a un patto fondamentale che contiene i valori essenziali e le regole imprescindibili del gioco politico, che disciplinano la vita collettiva. Che questo patto sia stretto tra persone che hanno – come strumento di comunicazione fondamentale – la lingua italiana fa della comunità politica che lo sottoscrive una comunità italiana.

Torno dunque al mio punto iniziale: è nella Costituzione che possiamo trovare un modo giusto per sentirci italiani. Un modo ricco di valori positivi. Un modo accogliente nei confronti di chi venga da altri Paesi ma decida di vivere in Italia e di far parte di questa specifica comunità, secondo procedure e regole che governino con serietà i flussi migratori. Un modo, infine, che può tenerci al riparo dai pericoli di un possibile risorgere del nazional-patriottismo. Il che, naturalmente, comporta che la Costituzione sia conosciuta, rispettata e amata: e se questo obiettivo diventasse il principale della pedagogia pubblica dispiegata per il 150°, allora sì che potremmo dire di aver fatto un buon uso di questo anniversario.