Nel dibattito politico sulle prossime elezioni amministrative, in particolare a Milano, Roma e Napoli, un posto rilevante è dedicato alle periferie. Tutti gli aspiranti sindaci dedicano, almeno a parole, un’attenzione particolare al degrado delle zone periferiche, a programmi di riqualificazione e miglioramento della qualità della vita nei quartieri disagiati lontani dal centro culturale, amministrativo, artistico delle città.
Degrado, periferia, immigrazione, insicurezza, precarietà, diventano così parole chiave delle campagne elettorali delle varie liste. Le ricette ovviamente differiscono nell’approccio più o meno inclusivo, più o meno securitario, a seconda dei partiti politici, ma comunque lo spazio urbano emerge come un tema rilevante della vita pubblica locale: come risolvere i problemi connessi agli insediamenti abusivi, ai campi Rom, ai rifugi precari di clandestini, come evitare la nascita o il proliferare di ghetti e di luoghi di segregazione abitativa di irregolari, marginali ecc. Ciò che manca nel dibattito pubblico è una seria riflessione sulle ragioni che hanno prodotto e continuano a produrre trasformazioni dei luoghi dell’abitare negli ultimi decenni caratterizzati da processi di spostamento delle popolazioni verso i centri urbani sempre più massicci e veloci. I processi di trasformazione dell’abitare, e di quella che dagli studiosi viene definita come rivoluzione urbana, è un fenomeno globale che procede incessantemente e molto velocemente soprattutto in tutti i continenti anche se più velocemente in Asia e in Africa, ma che in Europa e soprattutto in Italia, viene percepita nella sua serietà solo da poco tempo e dove troppo spesso si pensa di poter porre degli argini a livello locale.
Si stima che nel 2050 la rivoluzione urbana sarà compiuta su scala planetaria, poiché la maggior parte della popolazione mondiale vivrà in città. Ciò comporta mutamenti che coinvolgono le risorse, il consumo di suolo, le condizioni di vita, le istituzioni e i modelli socioeconomici sottesi al cambiamento e proprio di queste questioni dovremmo avere maggior consapevolezza e progettualità.
Le città sono straordinari spazi di trasformazione e cambiamento, di conflitti e interazioni, di scontro e di incontro di produzione culturale e di innovazione. La nozione stessa di spazio urbano, di centro e periferie appare ormai desueta a fronte di un’urbanizzazione che, in modo così accelerato, ridefinisce l’abitare, le relazioni e gli stessi soggetti coinvolti e richiede di ripensare le forme della «polis» del terzo millennio per «soddisfare» nuovi modi dell’abitare in cui le città restano sempre e comunque «terre della speranza», dove gli insediamenti sparsi, auto-costruiti, caotici e provvisori raccontano i tentativi di sperimentare luoghi di vita meno escludenti e dove si possa immaginare un futuro. Le odierne periferie sono profondamente diverse da quelle delle città industriali del secolo scorso, abitate da una classe operaia che in modo conflittuale dialogava con il centro, oggi le aree periferiche e degradate sono separate e isolate, raggiunte dai messaggi connessi a stili di vita e consumo per loro improponibili. In questo contesto occorre ripensare allo spazio pubblico troppo frequentemente oggi riproposto come spazio destinato al consumo, al marketing e disattento rispetto a molte altre esigenze della vita quotidiana delle persone. È di questi giorni la notizia relativa alla decisione dell’architetto Renzo Piano di ritirarsi dal progetto di riqualificazione dell’area ex Falck a Sesto San Giovanni per lo snaturamento del suo progetto iniziale della «città della salute», orientato prevalentemente al commercio e al divertimento. Diverse visioni della vita urbana si scontrano e diverse priorità e interessi si fronteggiano. La tendenza all’inurbamento è un indicatore ineludibile della trasformazione a livello planetario. Le città moderne, quelle del capitalismo industriale, non esistono più, al loro posto si assiste oggi nelle megalopoli contemporanee alla formazione di un arcipelago di configurazioni urbane, in massima parte periferie, slums, insediamenti transitori, fenomeno che velocizza, in modo impressionante, la trasformazione dei territori.
L’assenza di progettazioni avvedute di questi spazi urbani esplosi non è una casualità, così come la scelta di privilegiare su scala planetaria alcuni nodi capaci di favorire la valorizzazione dei capitali finanziari a fronte di un più o meno dissimulato disinteresse per le condizioni di vita delle popolazioni, sia nell’ambito dei diritti, sia dei servizi. Ogni progetto di riqualificazione delle aree metropolitane dovrebbe partire dalla consapevolezza del processo di trasformazione in atto che non può essere rallentato o fermato ma può essere monitorato con attenzione.
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