Complice la debolezza del governo Cameron, Londra ha deciso di ridiscutere la sua partecipazione all’Unione europea. In questo modo ha ottenuto da Bruxelles una serie di piccoli aggiustamenti della sua posizione in vista della sua permanenza all’interno dell’Unione. Al di là del rilievo, forse eccessivo, assunto dalla vicenda, la questione dà lo spunto per una riflessione più generale sulle ragioni che hanno portato a questo referendum inglese, e al rischio che altri Paesi vogliano seguire la stessa strada.

Le ragioni del nostro «stare insieme» sembrano oggi meno significative di una volta. Anche perché è così confermato quanto tante volte sostenuto in questi anni: l’Unione europea è un progetto iniziato a suo tempo e mai completato. Quindi, possiamo solo progredire sulla strada iniziata settant’anni fa, oppure – se stiamo fermi – incominciare ad arretrare. La sgradevole sensazione che ci provoca il referendum del prossimo 23 giugno, il quale dovrà decidere in merito a una eventuale «Brexit», è proprio questa. Per la prima volta, si percepisce che vi sia una probabilità – maggiore di zero – che la dissoluzione dell’Unione europea abbia inizio.

Tre aspetti in particolare meritano di essere considerati. Sono tutti in qualche modo sottovalutati dalle numerose analisi (e il gioco è appena cominciato) dei costi e dei benefici di un’uscita del Regno Unito dall’Unione, sia da una parte sia dall’altra.

1) Quanta Europa siamo riusciti a realizzare. Disfare qualcosa – o uscire da qualcosa – ha senso se quella cosa esiste ed è rilevante. Ma se guardiamo con cura ai risultati concreti di decenni di «effettiva integrazione», vediamo che in realtà quel processo di integrazione è risultato di molto inferiore a quanto si era promesso e/o iniziato a fare. Si è cominciato da carbone e acciaio, quindi si è passati a carne e latte, per arrivare infine al manifatturiero, complice la famosa sentenza del Cassis de Deijon del 20 febbraio 1979. Ne è scaturito il principio del «mutuo riconoscimento» (qualsiasi bene legalmente prodotto e venduto in uno Stato membro deve essere ammesso in tutti gli altri Stati dell’Unione) che ha guidato l’integrazione sempre più penetrante nel campo dei prodotti industriali. Peccato che ciò che valeva per automobili e vestiti (dove l’integrazione è molto avanzata anche nel campo della proprietà e nel campo strettamente industriale, in termini di filiere produttive) non trovava un’equivalente integrazione nel campo dei servizi (sia pubblici che privati, come nel mondo delle professioni).

2) Quanto ci ha guadagnato (e ora con Brexit perderebbe) Londra. Non c’è dubbio che il vantaggio di essere il centro finanziario dell’emisfero europeo abbia dato un notevole beneficio a Londra, rispetto a Parigi, Francoforte, Milano, e così via. Ma, a ben guardare, questo vantaggio relativo non andrebbe perduto con l’uscita del Regno Unito. Dovremmo assumere che sul continente prevalesse un orientamento di avversione a Londra (nonostante le ovvie «esternalità» positive della City, a cominciare dalla lingua inglese), disposto a investire anche molto, pur di erodere l’esistente forte vantaggio competitivo della piazza di Londra. D’altra parte, il modello di sviluppo dell’Europa perseguito negli ultimi trent’anni sembra aver attinto più di una semplice ispirazione dalle riforme iniziate a suo tempo dal governo di Margaret Thatcher. E di nuovo, ciò non dipendeva dal sentirsi europeo di quel governo (semmai era vero il contrario!) o dall’essere ultra-conservatori i nostri.

3) Quanto ci abbiamo guadagnato (e ora con Brexit perderemmo) noi. Dell’intera vicenda è possibile un bilancio paradossale: il Regno Unito potrebbe uscire da un’Europa da cui ha saputo ricavare benefici netti, mentre noi resteremmo in una Europa da cui non siamo riusciti ad avere tutti i benefici che ci erano stati promessi. In proposito, il discorso è quello fatto tantissime volte delle riforme necessarie per ottenere i benefici della crescente integrazione europea. Va infatti ripetuto che quei benefici non piovono dal cielo e comunque non arrivano gratis.

Occorre disegnare – e soprattutto realizzare – una strategia di riforme, che renda l’economia più flessibile (in reazione ai nuovi stimoli provenienti da un mercato più ampio e articolato) ed anche più resiliente (in presenza di shock che altrimenti producono conseguenze indesiderate). Tutto ciò lo sappiamo da trent’anni, ma l’abbiamo attuato solo in minima parte. Quindi, se l’uscita del Regno Unito potrebbe danneggiarci, la nostra uscita ci danneggerebbe di meno: rinunceremmo ai vantaggi che non siamo riusciti a meritarci, continuando peraltro a godere dei benefici della specializzazione e della qualità di un manifatturiero, le cui fortune poco dipendono dal nostro essere in Europa.