In linguistica, la «Teoria delle Onde» del tedesco Johannes Schmidt (1843-1901) spiega come un cambiamento, irradiandosi da un centro, raggiunga la periferia dell’area che coinvolge. Ad esempio, l’uso di piuttosto che nel senso di «oppure» è partito da Milano negli anni Ottanta, e si è propagato per imitazione nella penisola; sicché adesso si può sentir dire a Napoli: vado sul Rettifilo e mi compro una canotta, piuttosto che dei leggings, piuttosto che una borsa.

Spesso però accade che, mentre l’innovazione raggiunge la periferia, al centro le cose cambino di nuovo, cosicché l’innovazione diventa a sua volta una fase superata, che si conserva solo in luoghi marginali. Questo fu descritto da Matteo Bartoli (1873-1946) come Norma dell’area più recente:

 

L’area di più recente colonizzazione conserva la fase più arretrata.

 

Il fenomeno si osserva ad esempio nell’impero romano linguisticamente latinizzato. In diversi casi l’Italia attesta parole divenute di uso comune nel latino degli ultimi secoli, mentre le aree più periferiche conservano il termine del latino precedente, che le ha raggiunte quando a Roma si stava già imponendo un uso nuovo. (Qui alcuni esempi di come le lingue più lontane dal centro di propagazione – Roma – attestino una fase del latino più antica di quella testimoniata dall’italiano).

Questo fenomeno non riguarda solo la lingua, ma ogni attività umana in cui giochi un ruolo l’imitazione. Ad esempio, gli epigoni di un grande artista (scrittore, musicista, pittore o altro) tipicamente adottano elementi della sua arte che poi perpetuano in modo passivo, mentre il grande artista li supera in direzioni nuove. Cosicché quei modi espressivi sopravvivono negli epigoni anche quando il centro di irradiazione li ha sostituiti.

La mentalità aziendale nella sua forma più pura sopravvive nell’università e nella scuola. Anzi, sta conoscendo in esse la sua stagione di maggior furore, mentre le aziende leading, che l’avevano creata alla fine del secolo scorso, ne hanno poi preso le distanze, e oggi ne adottano forme meno rozze. Propagandosi con l’onda dell’imitazione la fase più arretrata ha raggiunto di recente la periferia dell’impero, cioè la componente della società che era più lontana da quella aziendale: il sistema dell’istruzione; e ora, ad opera di chi lo governa, vi si dispiega senza freni.

Qui per mentalità aziendale non intendo l’insieme complesso di caratteristiche che informano l’agire di tutte e di ciascuna azienda; ma il loro aspetto più tipico: la precedenza data al parametro economico. Questo è ciò che caratterizza le aziende rispetto ad altre imprese umane, come le famiglie, le amicizie, i club sportivi, le associazioni di volontariato, verrebbe voglia di dire la politica, ma chissà se ancora si può. È la priorità del fine economico, e la prevalenza del quantitativo sul qualitativo. Le due cose sono collegate, perché il denaro, che rappresenta il centro dell’agire aziendale, è la realtà che per eccellenza espelle il giudizio qualitativo, per esprimere tutto in termini quantitativi. Il denaro nasce per sopprimere le differenze qualitative, e per permettere di tradurre tutte le cose nei termini di un’unica realtà, su cui la domanda «Quale?» perde ogni senso, lasciando solo la domanda: «Quanto?». Tutto può diventare denaro, e il denaro può diventare tutto, quindi l’unica cosa che rimane sensato chiedersi è: Quanto Denaro.

Dunque la domanda fondamentale che ogni azienda pone a ogni suo dipendente è: Quanto denaro produci? Sulla risposta a questa domanda si basa la carriera che si fa nelle aziende. A questa domanda si ispira l’agire di ognuno all’interno di un’azienda, e l’agire complessivo dell’azienda (su questo, cfr. J. Bakan e A. Grechi).

Della scuola, e in particolare della cosiddetta «Buona Scuola» di questo governo, con i suoi prèsidi manager e simili cose, non parlerò perché non la conosco direttamente (cfr. E. Galli della Loggia). Ma posso descrivere un paio di esempi del prevalere del paradigma aziendale nell’università.

Che cosa deve produrre l’università? Sapere e capacità. Più ne produce, meglio è. Questo perché una popolazione forte di sapere e capacità sarà più felice, più reciprocamente rispettosa, e anche più ricca. La civiltà e la prosperità dei popoli più civili e più prosperi è direttamente proporzionale al loro tasso di istruzione. Quindi il modo più lungimirante di governare l’università è investirci molti soldi, pretendendo indietro molto sapere e formazione di alto livello. Non è pretendere che si atrofizzi su bilanci striminziti, e concentri ogni suo sforzo nel non andare in perdita. Non è pensare solo a quanto denaro entra e quanto denaro esce, ma a quanto sapere esce. L’università deve essere in grave perdita (economica), per poter rendere al meglio in sapere e capacità. È questo il suo pareggio di bilancio. Altrimenti è inutile (v. Martin Wolf, Running a university is not like selling baked beans). Invece l’università italiana viene governata da vent’anni come se la sola cosa fondamentale fossero i suoi conti economici.

Di questa tendenza fa parte l’accento che la governance mette sul fund raising. Fra i parametri in base a cui si valutano e si premiano i professori universitari, acquisisce sempre più importanza la capacità di organizzare progetti di ricerca finanziati da entità esterne. Così i docenti universitari vengono costretti ad accantonare i problemi scientifici e l’attenzione didattica, per concentrarsi su modi di ottenere soldi dall’esterno (su questo, v. quanto già scrivevo nel 2003). Poi chi li ottiene deve dedicare il tempo rimasto a fare ricerca su qualcosa che servirà a produrre o risparmiare rapidamente soldi; perché nessuno dall’esterno dell’università finanzia ciò che non promette di rendere presto ancora di più. Chi avrà perso lo stesso tempo ma non avrà ottenuto i soldi dovrà fare ricerca senza soldi, perché la ricerca in sé e per sé non viene quasi più finanziata dallo Stato; e chi li ha ottenuti ne perderà ancora moltissimo nell’amministrarli e rendicontare con estenuante burocrazia. Questo meccanismo marginalizza ogni attività non diretta a generare soldi. È un meccanismo aziendalista (appunto nel senso ristretto e superato), che danneggia gravemente la ricerca e l’istruzione.

Emblematico e rivelatore è anche il caso recente della linguista italiana Roberta D’Alessandro, che ha vinto un sostanzioso finanziamento dello European Research Council. La giovane ha intimato al ministro Stefania Giannini di non gloriarsi del suo successo come di un successo italiano, perché lo ha ottenuto solo grazie al centro di ricerca olandese dove lavora. In Italia, ha detto, non venivo premiata e ho dovuto emigrare. Ho partecipato a concorsi da ricercatore, e li hanno vinti altri: altri che questo finanziamento non lo saprebbero vincere! Probabilmente vero, e non entriamo nella polemica. Ma è interessante notare che in tutto il putiferio dei commenti sulla vicenda si è sempre dato per scontato che quei concorsi li avrebbe dovuti vincere lei, se ci fosse stata giustizia. Perché chi ottiene super finanziamenti è certo più bravo di chi non li ottiene. Questa è appunto la mentalità aziendale: chi alza più soldi è il più bravo.

Invece, chi ha un po’ di esperienza di ricerca e di cultura sa che non sempre ciò che attira più soldi è migliore di ciò che non li attira. E chi abbia esperienza di finanziamenti europei sa che i soldi vanno di preferenza ai progetti di scienza applicata, che producono subito ricadute economico-pratiche, mentre tendono a restare non finanziate le idee nuove senza ancora un visibile versante applicativo, e in generale la ricerca di base.

In un concorso da docente universitario, bisogna far vincere chi appare più intelligente, più preparato, più capace di fare ricerca e più adatto a insegnare. Non sempre questo coincide con l’essere bravo a proporre progetti fortemente applicati, con ricadute economiche o sociali dirette, che attirano molti soldi. Leggendo l’esposizione che fa del suo progetto la D’Alessandro mi sembra brava; ma dal suo avere ottenuto un grosso finanziamento UE non traggo davvero la conclusione che lei fosse più brava a fare ricerca e didattica universitaria di coloro che hanno vinto i suoi concorsi. Non è vero che chi riesce a drenare più soldi è il più bravo. Il fiore all’occhiello del progetto della D’Alessandro, a suo stesso dire, è l’idea del crowdsourcing, cioè di ottenere le testimonianze linguistiche dialettali da soggetti coinvolti mediante una raccolta in rete, anziché recandosi sul posto a intervistarli direttamente. Un’idea (anche se non nuova, e scientificamente discutibile) essenzialmente economica.