È ben noto in Italia il fenomeno dei giovani che vivono in famiglia: sono i due terzi del totale delle persone nella fascia tra i 18 e i 34 anni a fronte del 34,2% dei francesi, del 42,3% dei tedeschi e del 34,2% degli inglesi. In Italia la percentuale dei giovani che non riesce a lasciare la famiglia di origine è alta anche nella fascia di età più «adulta». Quasi un giovane su due tra i 25 e i 34 anni (il 49,4%), infatti, vive con almeno un genitore (in aumento di quasi cinque punti sul 2008) a fronte del 28,8% nell’Ue a 28 e dell’1,4% dei danesi (11,3% dei francesi e 16,8% dei tedeschi mentre gli inglesi sono appena il 13,8%). Tendiamo spesso a pensare a questo fenomeno come tipicamente ed esclusivamente italico o mediterraneo. In realtà la crisi economica del 2008 ha contribuito ad accrescere questi comportamenti in paesi che tradizionalmente conoscevano una rapida e precoce uscita e autonomizzazione dalla famiglia d’origine. In particolare è importante osservare come questo cambiamento abbia conosciuto una forte crescita durante la crisi economica che ha caratterizzato il periodo dal 2008 in poi in Paesi quali gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Di particolare interesse per noi europei è il caso inglese: un Paese che è rapidamente uscito dalla crisi economica, con un tasso di disoccupazione basso, con un Pil che cresce più del 2% l’anno e che ciò nonostante vede una rapida crescita del numero di giovani adulti che convivono con le famiglie d’origine.

Il 22 febbraio 2016 l’ufficio statistico britannico ha pubblicato un interessante rapporto dove presenta i dati sull’aumento consistente di giovani che restano a vivere in famiglia. Dal 1996 ad oggi si è passati da 2.7 milioni a 3.3 milioni del 2015 di giovani che vivono con i genitori. Analizzando i dati inglesi si può notare come la permanenza in famiglia sia associata a molteplici fattori: giovani universitari che per risparmiare vivono a casa e non nelle residenze universitarie, una forte diminuzione di acquisto di case di proprietà da parte dei giovani britannici, scoraggiati sia da un aumento dei prezzi degli immobili molto superiore all’aumento dei redditi da lavoro, sia da richieste di un capitale iniziale molto maggiore che in passato per accendere un mutuo. La crescita fortissima dei prezzi degli immobili ha provocato un considerevole aumento di permanenza dei giovani in famiglia e, parallelamente, l’aumento anche del mercato degli affitti per chi può permettersi di uscire di casa, sempre più tardi dato il reddito necessario. Altri elementi che concorrono a ritardare l’uscita da casa sono connessi all’aumento dell’età in cui si va a coabitare o ci si sposa e al  prolungamento del periodo di formazione prima di entrare nel mondo del lavoro. Tendenze simili possono essere trovate anche negli Stati Uniti. 

[Bansky, No Future, Southampton, 2010]

In quest’ottica si possono cogliere in molti paesi occidentali importanti cambiamenti del vivere in famiglia con il ritorno alla coabitazione di più generazioni e con un ritardo nell’uscita e nell’emancipazione dei giovani. Questo ha importanti ricadute non solo sugli stili di vita di varie generazioni, ma anche di tipo demografico contribuendo all’invecchiamento della popolazione di cui noi italiani conosciamo bene le conseguenze. Inoltre questo processo mette in luce l’importanza fondamentale che le istituzioni familiari hanno nel rendere praticabili progetti di vita altrimenti economicamente insostenibili, costruendo una interdipendenza generazionale sempre più forte e una disuguaglianza sociale sempre maggiore tra chi ha una famiglia alle spalle e chi no. Nel tentativo di consentire ai figli condizioni di vita e di benessere oggi sempre più problematici si riduce la natalità, ci si chiude nella cerchia ristretta della famiglia, e si cerca di impedire ogni forma di accesso a chi è fuori e bussa disperatamente alla porta.