Quando si parla di questioni legate alla sicurezza nei processi migratori che hanno investito l’Europa emergono sistematicamente due posizioni contrapposte e egualmente insoddisfacenti: una che minimizza la criticità del problema, l’altra che ne esaspera la gravità. Della prima fa parte anche la prospettiva che denuncia, correttamente, le derive securitarie di molta legislazione d’emergenza ma, ingenuamente, dà per garantita la sicurezza alle frontiere da parte di un sistema di sorveglianza che sarebbe assimilabile ormai al «Panopticon» di benthamiana memoria.

Una valutazione seria del nesso esistente tra migrazioni e sicurezza (dei cittadini ospitanti e dei migranti) comporta il saper riconoscere realisticamente che l’intreccio tra migrazioni, criminalità organizzata e terrorismo internazionale esiste e va attentamente analizzato, senza cadere nelle secche del minimalismo o dell’allarmismo. Vuol dire anche ammettere che questo intreccio produce paure e resistenze che si sommano a quelle già ben documentate, tempo fa, da Robert Putnam (E Pluribus Unum, «Scandinavian Political Studies», 2, 2007). 

Nei contesti etnicamente molto differenziati, rilevava Putnam, tende a diminuire la fiducia e il capitale sociale collaborativo non solo tra gruppi etnicamente eterogenei, ma anche all’interno degli stessi gruppi omogenei. Ciò vale nel breve e nel medio periodo e deve essere contrastato, nel lungo periodo, da politiche in grado di costruire legami-ponte tra gruppi eterogenei. Ma, come sappiamo, questa operazione è tutt’altro che facile e oggi, purtroppo, essa è stata resa ancor più difficile dagli attentati terroristici avvenuti sul suolo europeo.

Bisogna prendere atto che tali attentati hanno prodotto, e possono produrre ulteriormente in futuro, gravi danni sui sistemi di regolazione dell’immigrazione; nonché compromettere in modo assai pesante anche i modelli di accoglienza nordeuropei, tradizionalmente più attenti al dialogo interculturale. Tale presa d’atto, se si vuole realmente contrastare questi effetti negativi, deve essere accompagnata da due azioni concrete. Anzitutto, è necessario che sulle questioni relative alla sicurezza nei processi migratori sia costantemente alimentato un approfondito dibattito pubblico evitando di delegare, come oggi di fatto avviene, la soluzione di problemi molto controversi quasi esclusivamente ai governi, agli apparati di intelligence e alle forze dell’ordine. In secondo luogo, bisogna aprire maggiori canali di dialogo e di collaborazione tra cittadini e apparati di sicurezza, non solo per sollecitare un più ampio controllo democratico sul loro operato, ma anche per potenziare la sicurezza collettiva.

La sicurezza della popolazione ospitante e dei migranti, infatti, non può essere delegata totalmente all’intelligence e alle forze dell’ordine che, per quanto siano efficienti, non sono in grado di garantirla adeguatamente da sole. Per inciso, non ha senso sostenere, come alcuni osservatori fanno, che i nostri servizi di sicurezza sono ben attrezzati, per esperienza storica, a combattere il terrorismo, dato che il terrorismo internazionale dei nostri giorni si manifesta in forme e contenuti nuovi e imprevedibili.

Siamo in presenza, dunque, di un obiettivo di sicurezza estremamente complesso al cui perseguimento tutti devono contribuire. Questo vale sia nella collaborazione alle indagini sugli intrecci tra criminalità organizzata e terrorismo nei processi migratori; sia negli interventi di emergenza; sia, infine, nelle operazioni di contro-radicalizzazione volte a dissuadere i potenziali terroristi. Una maggiore collaborazione tra società civile e addetti alla sicurezza, su questi obiettivi delicati, è perciò indispensabile.

Essa è però frenata non solo dai rischi e dalle minacce che ciò può comportare per coloro che collaborano, ma anche da un certo distacco della popolazione nei confronti dei detentori della violenza legittima. Anzi, è facile constatare che esiste un contrasto stridente tra i generici atteggiamenti di fiducia verso le forze dell’ordine che i sondaggi sui cittadini registrano periodicamente in molti Paesi occidentali e la fiducia espressa, di volta in volta, nelle operazioni da loro concretamente realizzate. Questo contrasto è in parte imputabile ai limiti intrinseci ai sondaggi condotti sulla fiducia istituzionale dei cittadini, ma, soprattutto, ha a che vedere con la presenza ingombrante, in queste professioni, della violenza (pur legittima e democraticamente esercitata).

Cosa si può fare allora? Anche se l’impresa può sembrare disperata, bisogna riuscire a costruire soluzioni istituzionali e comunicative atte a superare questa difficoltà di collaborazione non solo localmente, ma anche a livello europeo. La stessa richiesta di una migliore gestione dei confini esterni all’Unione europea, al centro dell’attenzione oggi, non può essere demandata esclusivamente a una più «efficiente» e coordinata polizia di frontiera, ma richiede un fattivo contributo di discussione e di sostegno della società civile sul come realizzarla in maniera solidale e sostenibile.

[Dello stesso autore, su questi temi è in uscita sul numero 2/2016 del “Mulino” l’articolo Migrazioni e sicurezza, pp. 231-239]