L’accordo raggiunto venerdì notte a Bruxelles per trattenere il Regno Unito in una (svilita) Unione europea presenta molti profili di arretramento: alcuni, quando diverranno effettivi all’annuncio ufficiale di Londra della propria permanenza nell’Unione, sarà possibile apprezzarli nell’esatta formulazione che daranno le istituzioni e quindi valutarli anche in prospettiva. Essi potrebbero rivelarsi come uno dei tanti passi indietro necessari per poi farne due o più in avanti, che hanno costellato la (faticosa) storia dell’Europa del secondo dopoguerra. Ma uno sembra rappresentare non un episodio della race to the bottom, alla quale ci siamo dovuti accostumare in materia di diritti sociali, ma proprio una corsa verso l’annullamento di uno dei principi fondanti dell’integrazione europea. Ci riferiamo alla possibilità di escludere per anni i lavoratori comunitari, regolarmente impiegati in uno Stato membro diverso da quello di origine, dal godimento delle prestazioni sociali, pur essendo – in quanto appunto regolarmente impiegati – gravati dei relativi oneri contributivi, fiscali e parafiscali.

Quando, nel 1956, i padri fondatori, nella loro “frigidità sociale” secondo la celebre espressione di Federico Mancini, diedero vita a quel progetto di zona di libero scambio che era la Comunità economica europea, si preoccuparono immediatamente – con il terzo regolamento adattato nel primo anno di vita – di garantire ai lavoratori migranti i diritti previdenziali, condizione ritenuta essenziale per non lasciare come mero segno sulla carta il principio della libera circolazione della forza lavoro. Normativa che affonda naturalmente la propria radice nel principio, consacrato come fondamentale nei trattati, di non discriminazione sulla base della nazionalità.

È ben vero che in questi sessanta anni fiumi di inchiostro sono stati versati per sceverare le aporie e le contraddizioni del sistema, impegnato nel compito straordinario di coordinare – ma non armonizzare, lo ricorda puntigliosamente anche il documento approvato venerdì notte – ordinamenti di protezione sociale tra loro anche molto differenti; aporie e contraddizioni che ne hanno minato la validità – cioè la capacità di garantire giustizia sociale – in più di un punto. 

È altrettanto vero che in materia di ordinamenti domestici di protezione sociale ha preso piede una delle più clamorose contraddizioni interne al funzionamento dell’Unione. Infatti, mentre secondo i trattati solo la rigorosa unanimità consente l’intervento in materia di sicurezza sociale, sancendo l’impossibilità di una dislocazione di sovranità in proposito, proprio in materia di protezione sociale hanno avuto corso gli interventi più pesanti e devastanti della Troika nei confronti degli Stati in difficoltà finanziaria.  

Insomma, la sofferenza attuale dei sistemi, di quello dell’Unione come di quelli domestici, di sicurezza sociale è conclamata e ha sicuramente radici nella lunga egemonia neo-liberista. Tuttavia la tutela in caso di malattia, maternità, infortunio, disoccupazione e vecchiaia resta iscritta nelle Carte fondamentali, e grazie al divieto di discriminazioni – dirette o indirette – fondate sulla nazionalità, è stata estesa ai lavoratori che circolano da un Paese all’altro dell’Unione.

L’accordo siglato venerdì notte mette in discussione questi fondamentali principi, vincolando la Commissione europea a presentare una proposta di modifica del regolamento relativo alla libera circolazione dei lavoratori, al fine di introdurre «un meccanismo di allerta e salvaguardia per rispondere a situazioni di afflusso di lavoratori provenienti da altri Stati membri di portata eccezionale e per un periodo di tempo prolungato». Sulla base di tale previsione il Consiglio (con buona pace del Parlamento europeo che non viene neppure consultato!) potrebbe autorizzare lo Stato membro a limitare «l’accesso alle prestazioni a carattere non contributivo collegate all’esercizio di un’attività lavorativa» per i lavoratori migranti, per i primi quattro anni di lavoro.

Va preliminarmente chiarito che la premessa su cui si basa l’accordo – l’esistenza, attuale o potenziale, di «flussi di lavoratori di ampiezza tale da produrre effetti negativi sia per gli Stati membri di origine che per quelli di destinazione» – è smentita da numerose importanti ricerche della Commissione europea, dell’Ocse e di altri centri di ricerca europei.

La “coerenza” della misura non può essere pretesa neppure dal fatto che in gioco siano prestazioni non contributive: queste infatti sono finanziate dalla tassazione generale e i lavoratori regolarmente occupati pagano altrettanto regolarmente le tasse. Peraltro, la Corte di giustizia dell’Unione, nella sua pluridecennale giurisprudenza in materia di libera circolazione dei lavoratori, ha autorizzato deroghe al divieto di discriminazioni dirette basate sulla nazionalità, solo se giustificate da ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica. Analogamente, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiarito che il diritto alle prestazioni sociali – a carattere contributivo o non – deve essere assicurato in maniera non discriminatoria, salvo che la differenza di trattamento persegua un fine legittimo e sussista un rapporto di ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati ed il fine perseguito. Il che appare, nel caso di specie, fortemente revocabile in dubbio.

Ma vi è di più. L’accordo interviene anche sull’interpretazione della normativa comunitaria vigente, tentando di limitare l’accesso alle prestazioni di assistenza sociale anche per i cittadini europei che stanno legittimamente cercando un lavoro in un altro Stato membro.

In una Unione che ha visto negli anni più recenti una rigorosa difesa della libertà di circolazione dei servizi e delle imprese a detrimento dei diritti dei lavoratori, si apre così ora la strada ad una severa limitazione della circolazione dei lavoratori; proprio intervenendo su quella sicurezza sociale che, intoccabile quando l’Europa iniziava a costruire un embrione di socialità comune e se ne temeva un effetto espansivo, oggi se ne accetta la piena vulnerabilità nella sempre più ristretta ed egoistica difesa delle piccole patrie.