Dalla fine di marzo il quotidiano «The Independent» non avrà più l’edizione cartacea. La notizia ha fatto ripartire un tormentone che già da diversi anni tocca il mondo editoriale: quando scomparirà la carta stampata? Domanda legittima, visto che i dati mostrano in tutto il mondo una tendenza inequivocabile: il progressivo quanto inesorabile declino delle vendite e la conseguente diminuzione degli investimenti pubblicitari. Del resto, basta guardarsi intorno per notare sempre meno persone con il quotidiano sotto braccio, praticamente nessuno fra gli under 40. A questo pessimismo c’è chi ribatte come l’eventuale eliminazione della carta stampata non significhi la morte del giornalismo, bensì il suo trasferimento sui supporti digitali, e anzi sottolinei come proprio grazie alla facilità d’accesso all’online e alla crescente viralità dei social non ci siano mai stati tanti lettori come oggi.

Per una volta abbandoniamo un vezzo molto diffuso quando si parla di media e di giornalismo ‒ dividersi fra apocalittici e integrati ‒ e cerchiamo di capire le direzioni che sta prendendo il giornalismo. L’ultimo rapporto dell’Agcom rileva come in Italia ormai il 42% del pubblico acceda alle notizie attraverso l’online, che diventa la fonte principale scavalcando la Tv – al 39% – e la stampa, ferma al 13%. Di questa maggioranza, soltanto il 35% accede alle informazioni attraverso i siti delle testate, gli altri tramite i motori di ricerca oppure i social network.

Le abitudini di consumo stanno inesorabilmente cambiando. Le notizie sono ubique, le troviamo sulle bacheche social, oppure «googlando» sui più svariati argomenti. Dunque, ci raggiungono dappertutto e spesso senza che nemmeno ce ne accorgiamo o lo vogliamo. Si sta sviluppando un consumo tanto diffuso quanto veloce. Infatti, i dati confermano come il numero di individui che si espongono quotidianamente all’informazione cresca enormemente attraverso l’online, ma la loro permanenza sui siti d’informazione sia molto inferiore alla durata della lettura media di un quotidiano. L’attenzione è continua quanto superficiale; ma soprattutto sempre più casuale e meno consapevole: si entra e si esce dai siti giornalistici mentre si sta facendo altro, in rete o sui social.

Anche per questo motivo al progressivo spostamento del consumo giornalistico sulla rete  non sta seguendo un analogo trasferimento degli investimenti pubblicitari, sia per la perplessità che questa volatilità produce, sia perché gli investimenti – casomai – si fanno direttamente sui motori di ricerca o sui principali social network. Secondo il rapporto 2015 di World Press Trends, ogni 25 centesimi di ricavi pubblicitari persi dalla carta stampata viene compensato dall’online soltanto di un centesimo.

È quindi evidente l’esigenza di rivedere completamente i modelli di business. Le strade finora intraprese sono due e molto distinte fra loro. Da un lato, la politica dei clic, cioè massimizzare le visualizzazioni stressando le soft news. Per questa via, forse, si riescono a contenere le perdite, ma si rischia d’indebolire la credibilità della stampa, non a caso ai minimi storici in tutto il mondo. Dall’altro alto, costruire nuove forme di fidelizzazione. Alcune esperienze, soprattutto americane, sembrano dimostrare come l’attenzione e la permanenza del lettore si conquistino attraverso la realizzazione di un rinnovato senso d’appartenenza del lettore.

Circa il 40% delle testate americane ricorre al paywall, cioè farsi pagare per la fruizione dei contenuti online. Una strada controversa perché spesso foriera di insuccessi attribuibili a una doppia motivazione: perché pagare se si possono avere contenuti simili gratuitamente per le tante strade che offre la rete? Perché pagare per contenuti che spesso sono molto brevi e superficiali, in quanto si adattano a quella volatilità di cui si è detto?

A queste difficoltà si è risposto con la costituzione di membership, che possono avere livelli differenti di coinvolgimento – e quindi di costo – e prevedere contenuti specifici, ma anche partecipazione ad eventi, visite in redazione, sconti su prodotti e servizi di vario tipo.  Addirittura in alcuni casi si ricorre a «punti fedeltà» forniti perché si è guardato un’inserzione pubblicitaria oppure frequentato con assiduità il sito o si è messo a disposizione i propri dati personali.

Insomma, si punta a definire un rapporto sempre più fidelizzato, garantito soprattutto dalla presenza di contenuti esclusivi, che sappiano attirare l’interesse dei lettori; casomai perché in grado di ricorrere a nuove forme di narrazione, come dimostrato dal successo di servizi basati sul data journalism o sul long-form journalism, oppure – è il caso del giornalismo iperlocale –  perché si approfondiscono aspetti peculiari di una comunità.

In Italia in questa direzione si sta muovendo da anni «Il Sole - 24 Ore», che non a caso ha aumentato i ricavi che non derivano dalla diffusione e dalla pubblicità, con particolare successo per le attività formative. Del resto anche il «Corriere della Sera», che ha recentemente optato per un primo esperimento di paywall, e «la Repubblica» si stanno indirizzando verso l’organizzazione di eventi e appuntamenti, basti pensare alla Repubblica delle idee.

È ancora troppo presto per fare previsioni, peraltro per una realtà – come quella italiana – dove la diffusione della stampa non è mai stata esaltante e la concorrenza dell’offerta gratuita sempre ben apprezzata dal pubblico. Come si è visto, le strade possibili sono tante e il successo sembra essere garantito quando la forza del brand sa rinnovarsi attraverso una maggiore inclusione del proprio pubblico, con cui entrare in nuove e più articolate forme di relazione. Tuttavia è da vedere se e quanto ciò potrà realizzarsi in una forma sufficientemente compiuta.