Tra le varie reazioni alla crisi dei profughi siriani c'è stata la proposta di abolire l'uso della parola “migranti” e di estendere a chiunque migri da un Paese all'altro l'appellativo di "rifugiato". Sotto la lingua si cela la sostanza: la proposta implicitamente suggerisce che gli Stati non avrebbero diritto di limitare l'accesso dei migranti, perché le ragioni che li spingono alla fuga sono gravi quanto quelle che il diritto internazionale riconosce ai rifugiati. Nel diritto internazionale i rifugiati limitano il diritto di sovranità degli Stati: ogni Stato può a propria discrezione rifiutare l'ammissione ai migranti, ma non ai rifugiati, che sono protetti dal diritto internazionale. Chiamare “rifugiati” tutti i migranti economici significa auspicare che ogni Stato apra le sue frontiere.

A una proposta del genere si può obiettare che molti migranti economici non sono affatto assimilabili ai rifugiati, neanche nell'interpretazione più estensiva del termine – chi vive in nazioni che non offrono opportunità di vita decente non corre pericolo di vita, ma fa un investimento sul futuro e cerca altrove le opportunità che non trova in patria. Questi migranti hanno a disposizione somme importanti e le usano per migliorare la vita propria e dei propri cari. Quindi, per le medesime ragioni per cui si debbono ammettere i rifugiati, diventa lecito rifiutare l'accesso a tutti gli altri migranti.

Ma, indipendentemente dalle proprie convinzioni politiche, la realtà dei movimenti di popolazione oggi è un continuum che recalcitra a queste distinzioni artificiali. Si pensi a una categoria di migranti oggi molto discussa, i cosiddetti migranti climatici. Il cambiamento climatico causerà sicuramente movimenti di popolazione: intere regioni verranno rese inospitali, per la desertificazione o l'innalzamento del livello dei mari. Alcuni gruppi compiranno spostamenti all'interno dello stesso Paese – nelle Filippine, in Bangladesh, forse nel delta del Nilo. Alcune nazioni, insediate su isolotti del Pacifico, potrebbero perdere del tutto il proprio territorio – è il caso di alcune piccole isole come Kiribati e Tuvalu. L'unica risposta a eventi del genere è la fuga.

Si può dubitare che gli abitanti di questi Stati scomparsi abbiano il diritto morale a essere accolti? Ma il loro status giuridico è quello di migranti, o tutt'al più di apolidi. Eppure, affermare che non si tratta di rifugiati basta a giustificare che si neghi loro accoglienza? Di fronte a masse di profughi provenienti da terre allagate o devastate da tifoni ed epidemie, saremo moralmente in grado di chiudere le nostre frontiere? Paradossalmente, questi nuovi migranti potranno vantare diritti più forti dei rifugiati. Infatti, non è detto che la reazione moralmente corretta di fronte a chi scappa da un governo tirannico sia l'accoglienza – o l'accoglienza permanente. Si potrebbe sostenere che contro un regime che calpesta i diritti umani dei suoi cittadini sarebbe legittimo l'intervento umanitario degli Stati democratici. Per cui i rifugiati dovrebbero venire accolti solo provvisoriamente. Ma che cosa si può fare per chi ha perso del tutto il territorio del proprio Stato, o una porzione sufficientemente grande di esso, se non accoglierlo?

Quindi è possibile che nel futuro ci siano migranti le cui condizioni sono addirittura peggiori di quelle che spingono oggi alla fuga i rifugiati. E ci saranno sempre migranti che scommettono su un futuro migliore. Decidere dove fissare la linea che separa chi non si può non accogliere da chi si può fermare alla frontiera non può essere questione di parole. È una questione che dovrebbero decidere tutti i cittadini delle nazioni privilegiate, considerando la propria coscienza e i fondamenti etico-politici delle liberal-democrazie. Per chi come noi in Europa ha da ormai da settant'anni il diritto a certi standard di vita, è difficile negare le stesse condizioni a chi non le ha mai avute, talvolta per responsabilità da cui non siamo esenti. I movimenti di popolazione presentano una serie di dinamiche molto differenti, con gradi diversi di gravità. Credo che non ci siano argomentazioni valide per bloccare alle frontiere i migranti, di nessun tipo: ma tanto le argomentazioni a favore, quanto quelle contrarie a questa tesi non possono derivare da una interpretazione del diritto internazionale e delle sue definizioni o da riforme estemporanee del linguaggio. Su questioni del genere nulla può sostituire la riflessione morale e la discussione democratica: il diritto internazionale non determina ciò che è moralmente e politicamente giusto, ma semmai ne viene determinato. Tutto il resto è retorica o propaganda.