Un mito vacilla, quel­lo della superiorità del model­lo industriale tedesco. Quan­te volte abbiamo sentito vantare la qualità e l’affidabilità dei pro­dotti tedeschi, soprattutto nel campo dell’automobile! Ancora all’inizio di quest’anno c’era chi auspicava che Fiat-Chrysler si de­cidesse a vendere il marchio Al­fa-Romeo a Volkswagen, che avrebbe saputo valorizzarlo di più. Nei talk-show televisivi l’indu­stria automobilistica tedesca è sempre stata im­battibile: investiva di più in ricerca, sfornava sempre nuovi prodotti e natu­ralmente le sue condizioni di lavoro erano infinitamente migliori. Peccato che l’eccellenza tecnologica tedesca non sia sempre stata impiegata per un buon fine, perché c’era chi s’ingegna­va a falsificare i dati effettivi delle emis­sioni dei motori diesel progettando ad­dirittura un apposito software.

A Wolfsburg, sede storica della Volkswagen, non avevano fatto però fatto i conti con la vigilanza oculatissima sulla sicurezza delle auto e sui lo­ro effetti inquinanti esercitata negli Stati Uni­ti. Oltreoceano le case produttrici sono sottoposte a controlli stringenti che portano poi a sanzioni assai onerose. Ora la Volkswagen dovrà ritirare qualcosa co­me mezzo milione di auto, con una multa da pagare che potrebbe raggiun­gere la cifra iperbolica di 18 miliardi di dollari. Ci vogliono le spalle larghe del colosso tedesco dell’auto per reggere a un danno simile, dalle gravissime con­seguenze sul piano dell’immagine e della reputazione, oltre che sotto il pro­filo economico (in Borsa la Volkswagen ha subito immediatamente una perdita pari a oltre il 20% del valore delle sue azioni).

Come è potuto succedere? Si saran­no chiesti milioni di automobilisti in tutto il mondo. E se lo è domandato an­che il governo di Berlino, ben consape­vole che il marchio VW è l’alfiere dell’industria tedesca, il simbolo di un gruppo globale dell’auto che, stando ai dati del secondo trimestre 2015, è il primo al mondo per le vendite. Non c’è dubbio che si attendono spiegazio­ni da Wolfsburg e il più rapidamente possibile.

Per giunta, la bomba è scop­piata in uno dei passaggi più delicati della storia aziendale della VW. È vero, infatti, che oggi il gruppo tedesco occu­pa la posizione di testa fra i produttori d’auto, davanti alla giapponese Toyo­ta e all’americana General Motors, seb­bene con un vantaggio numerico non troppo consistente (tutti e tre stanno intorno alla soglia dei 10 milioni di vet­ture). Ma la sua redditività è in calo e anche la posizione di mercato è insidia­ta dalla caduta sia del mercato cinese sia di quello brasiliano. A luglio, le ven­dite sono scese più del 3,5% e si è già calcolato che a fine anno la contrazio­ne potrebbe essere del 5%.

Ma VW ha guai anche di altra natu­ra. In primavera il suo vertice è stato squassato da un inusitato scontro di potere. L’autorevolissimo presidente del gruppo, Ferdinand Piëch, ha ingag­giato una lotta all’ultimo sangue con l’amministratore delegato, Martin Winterkorn, allo scopo di estrometter­lo. Piëch voleva fare di VW, in un certo senso, la summa del sistema dell’auto, incorporando entro il suo perimetro aziendale tutti i marchi che potessero rendere sempre più forte e inattaccabi­le la sua gamma di offerta. È stato lui, per esempio, a volere che Audi acquisisse la Duca­ti e sarebbe stato pronto a com­prare anche l’Alfa-Romeo, se Marchionne avesse ceduto un marchio che Fca vuole invece rilanciare.

La bulimia industriale di Piëch sta­va mettendo a rischio l’equilibrio del gruppo, in un momento in cui, secon­do Winterkorn, occorreva impegnarsi in un’opera di razionalizzazione della struttura aziendale, evitando di am­pliarla ulteriormente. Alla fine, quest’orientamento più saggio ha fini­to con l'avere la meglio e chi se ne è do­vuto andare è stato il vecchio patriarca dell’auto, che non ha più trovato l’ap­poggio nemmeno delle istituzioni e dei sindacati (grazie alla cogestione Ig-Metall, il maggiore sindacato indu­striale del mondo, è una vera colonna portante dell’ordinamento d’impre­sa).

In questa cornice va collocata an­che la sconsiderata politica di conqui­sta del mercato nordamericano, che ha condotto al disastro di ieri. Negli Stati Uniti, la Volkswagen voleva raddoppia­re il volume delle vendite, oggi non pro­prio brillanti, entro il 2018. Questa rin­corsa forsennata degli obiettivi deve aver provocato il raggiro tecnologico che è stato rivelato ieri.

L’ansia da primato può giocare scherzi pericolosissimi. Quando la Toyota anni fa si vide prossima a sor­passare la General Motors, prima casa produttrice dalla fine degli anni Venti in poi, abdicò al suo modello produtti­vo centrato sulla ricerca di qualità che l’aveva sempre contraddistinta. E pa­gò carissimo, anche sul piano dei con­ti, quello sforzo che l’aveva fatta uscire dai suoi paradigmi. Ora la casa giapponese ha imparato la lezione: quando sono uscite le cifre che le consegnava­no temporaneamente la supremazia nelle vendite dopo il primo trimestre 2015, ha emesso un comunicato in cui specificava che non le importava di es­sere la prima in classifica, ma di fare buone auto che si vendevano ovun-que.

È una lezione che non va dimentica­ta nemmeno a Detroit. Se davvero Marchionne l’anno prossimo lancerà un’Opa su General Motors, dalla fusio­ne con FCA potrebbe nascere un grup­po da 15 milioni di vetture all’anno. Un gigante come non se ne sono mai visti nella storia dell’industria. Per fortuna, Marchionne si è posto come obiettivo fondamentale non il primato in quan­to tale, ma un sistema capace di conte­nere e riequilibrare i costi degli investi­menti.

 

[Una precedente versione di questo articolo è apparsa sulle pagine de «Il Mattino», il 22 settembre 2015]