Il tentativo di destabilizzazione della Tunisia. Venerdì 26 giugno, durante il Ramadan, sulla spiaggia di un noto hotel di Port El Kantaoui, a pochi chilometri dalla città di Sousse, un giovane di 23 anni, Seiffedine Rezgui, ha assassinato 38 turisti che stavano trascorrendo le loro vacanze. A pochi mesi dall’attentato del Bardo, la Tunisia viene nuovamente colpita, con un attacco ancora più cruento, con lo scopo di voler far naufragare la delicata transizione del Paese.

Il nuovo attacco alla Tunisia, modello esemplare di quel laboratorio politico che è stato in grado di portare il Paese a una transizione democratica dopo la rivolta del 2011, sembra rivelare una strategia ben definita. Il terrorismo, che si muove nello spazio globale di un Islam mondializzato (si veda K.F. Allam, Il jihadista della porta accanto, Piemme, 2014), attraverso il meccanismo della paura punta alla destabilizzazione della democrazia tunisina. Il progetto di destabilizzazione di Da’sh (Isis) ha avuto inizio tramite un reclutamento su larga scala di adepti, tanto che la Tunisia raggiunge il triste primato di «esportatore di jihadisti» verso la Siria e l’Iraq. Secondo le stime fornite dal ministero degli Interni nel 2014 sarebbero stati arruolati circa 2.400 giovani tunisini attraverso la rete costituita da social network, moschee, alcune associazioni culturali.

In gran parte dei casi, si tratta dei rappresentanti di quella generazione del cambiamento che, all’indomani della rivolta del 2011, ha vissuto un profondo malessere, alle prese con la pesante situazione nel mercato del lavoro. La disoccupazione ha creato frustrazione e malcontento nella fascia giovanile della popolazione tunisina, assottigliando la speranza di reale cambiamento tanto anelata all’indomani della rivolta che aveva cacciato il dittatore. Così la sfiducia apre la strada alla disperazione in cui è facile agire per i reclutatori del terrore.

Il progetto di destabilizzazione di Da’sh (Isis) ha avuto inizio tramite un reclutamento su larga scala di adepti, tanto che la Tunisia raggiunge il triste primato di "esportatore di jihadisti" verso la Siria e l’Iraq

La seconda fase del progetto di destabilizzazione punta all’annientamento dell’economia del Paese e in particolare al comparto del turismo che, sino a oggi, era in grado di garantire 400.000 posti, assorbendo il 15% della forza lavoro. Il settore turistico, come rivela anche la Bct (Banca centrale tunisina), già fortemente provato all’indomani dell’attentato del 18 marzo scorso, ha registrato nell’aprile 2015 un calo pari al 25,7% rispetto al 2014. Com’è noto, in un Paese come la Tunisia, che vive un processo alquanto delicato di Nation Building, il rilancio dell’economia è prioritario nell’agenda di governo e una nuova crisi potrebbe produrre effetti devastanti. Accanto al comparto turistico l’allarme è ora rivolto verso le moltissime imprese straniere che operano da anni nel Paese. A tal proposito ricordiamo che, tra queste, vi sono 750 aziende italiane che rappresentano all’incirca il 25% delle imprese straniere in Tunisia e per le quali anche dopo il sanguinoso attentato del Bardo continuava a «restare un Paese strategico».

In questo quadro s’inserisce il piano eccezionale promesso dal primo ministro Habib Essid, in accordo con il capo dello Stato Beji Caid Essebsi, per assicurare maggiore sicurezza nel Paese attraverso un controllo capillare dei siti turistici e la chiusura di ben 80 moschee che operano fuori dal controllo statale. Tuttavia il piano di sicurezza proposto, pur essendo una condizione necessaria nel breve termine, non si rivela sufficiente. Anche all’indomani dell’attentato di marzo le misure di sicurezza erano state rafforzate ma, come mi conferma una delle voci più autorevoli della società civile tunisina, Lina Ben Mhenni, «il nostro governo deve assumersi le proprie responsabilità perché dopo il Bardo era prevedibile che il Paese era a rischio. Siamo stanchi di promesse non mantenute». Lina Ben Mhenni prosegue riferendo che «lo shock è stato enorme per i tunisini e altrettanto profondo è il rammarico nel costatare che non si è riusciti a proteggere i turisti».

In questo quadro s’inserisce il piano eccezionale promesso dal primo ministro Habib Essid per assicurare maggiore sicurezza nel Paese attraverso un controllo capillare dei siti turistici e la chiusura di ben 80 moschee che operano fuori dal controllo statale

Dinanzi a questo nuovo attacco la Tunisia si rivela sempre più fragile nonostante il capo dello Stato Essebsi ribadisca che il Paese «è in guerra contro il terrorismo» e richieda «una strategia globale, in cui tutti i Paesi democratici devono unire le forze». La formula della politica di sicurezza, dunque, non è sufficiente se non accompagnata da un capillare aiuto economico e sociale verso quei giovani delusi che all’indomani della primavera dei gelsomini sono diventati terreno fertile di reclutamento per il terrorismo. È necessario che l’Europa e i suoi Paesi membri aiutino il Paese in termini economici e supportino, attraverso programmi internazionali di educazione alla cittadinanza attiva, la generazione del cambiamento.

 

[Una prima versione di questa corrispondenza è stata pubblicata su Mentepolitica il 2 luglio]